Pubblico e privato nello spazio scolastico
Rita Bartolini
Sullo sfondo
C’è nel muoversi dell’uomo un bisogno di direzione che solo la presenza di uno spazio può contenere e sostenere, affinché le tracce si trasformino in una possibile storia. L’uomo nasce nella storia, o meglio dovremmo dire che l’uomo nasce storia. Ma questa natività che ha un significato temporale, possiede contemporaneamente una sua collocazione spaziale.
Ogni domanda relativa al “quando” si accompagna alla domanda relativa al “dove”, come se l’una senza l’altra perdesse di interesse, come se il loro coesistere rimandasse ai sensi più profondamente umani di forma e contenuto, di corpo e anima, di quiete e movimento.
La compresenza di spazio e di tempo diventa davvero la storia dell’uomo, perché il passaggio dell’uomo, che avviene in un prima e in un dopo, si fa documentazione nell’ “improntare” di sé i luoghi in cui costituisce la sua esistenza con gli altri.
Così nascono i luoghi rappresentativi dell’essere uomo tra uomini: la casa, la piazza, la scuola, il tempio, i cimiteri, i teatri, le biblioteche…
L’edificazione è il tentativo umano di fissare, come su una istantanea, l’importanza di quel preciso tempo in un suo spazio che lo fermi, che lo fissi (in quanto costruito), per sempre.
Ma da quell’ edificio, o da quel luogo, non passano solo l’insieme degli atti che quella edificazione richiama e contiene. Da quelle pietre, da quei volumi, da quelle geometrie, passano anche le idee, le prospettive concettuali che hanno inteso che quell’ opera fosse così e non diversamente.
Dentro l’organizzazione dello spazio di vita dell’uomo c’è sempre una tensione morale che promuove una serie di valori abitativi in alternativa ad altri. Quando l’opera riesce ad essere realizzata, quei valori diventano «diritti» abitativi, «diritti» naturali di cui l’uomo può usufruire. Questo aspetto etico trova legittimità nel lavoro realizzato quando l’architettura si presenta non solo nel suo aspetto ideale, ma quando si offre come bene pronto per la fruizione del cittadino, suo utente e rappresentante la collettività.[1]
Nello spazio l’uomo porta se stesso: porta il suo essere stato, il suo essere ora e la tensione ad essere il suo futuro. Il suo passato è testimoniato dall’insieme dei segni e degli oggetti che lo testimoniano e di cui ne ha memoria, rispetto e responsabilità. Il suo presente è l’insieme delle relazioni e delle posizioni che sceglie qui e ora per toccare e comunicare con chi lo circonda e ciò che lo circonda. E il suo futuro? E’ l’insieme dei “vuoti” che è in grado di generare, tralasciando e togliendo ciò che non serve più a sé e agli altri, per consentire a quei vuoti di “attendere” altri e altro. E così l’idea di spazio perde la sua eventuale casualità o accessorietà, così come perde l’idea di una fissità di qualcosa dato una volta per sempre, per diventare, in quanto umano e umanizzante, un altro e ulteriore contesto di educazione, di mediazione di sensi, segni e significati da “scambiare” con gli abitatori di quello spazio.
Dunque l’osservazione dello spazio è qualcosa di più e di oltre rispetto ad una esclusiva visione delle geometrie piane e solide.
Lo spazio è l’immagine della storia, ma la storia è l’uomo. E l’uomo è uomo oltre i singoli confini all’interno dei quali si trova ad essere “gettato”.
Nel mio essere qui ed ora vi è sempre, e simultaneamente, un universo di milioni di uomini il cui essere qui ed ora è uno stare con me, anche senza essere insieme a me. Com’è possibile pensare l’altro nella mia contemporaneità, nel mio fare qui, parlare qui, pensare qui, emozionarmi qui? Com’è possibile pensare il superamento di questo confine che non è solo geografico, ma soprattutto infrasoggettivo?
Forse un modo sta proprio nel fare confronti, nell’individuare differenze che in realtà sono uguaglianze, perché nascono da medesimi bisogni.
Il confronto più coinvolgente nasce nei luoghi in cui l’uomo segna particolari passaggi. Passaggi che nello stesso tempo indicano i confini caratterizzanti l’umano: dal non esistere all’esistere; dall’esistere al non esistere. E’ così che in definitiva ognuno di noi legge il proprio quotidiano muoversi: stare in casa o stare in strada, stare in un edificio o stare in una piazza, stare in una stanza o stare in un’altra stanza,… Stare in famiglia o stare a scuola, stare da solo o stare in compagnia, stare per conto proprio o stare in gruppo… Sentirsi corpo o sentirsi spirito, avvertire la pelle, avvertire ciò che contiene, avvertire ciò che sta fuori,…
Costanti passaggi, costanti percezioni e superamenti di confine per ulteriori definizioni di altri confini. Il confine torna e ritorna, perché è lo spazio che lo invoca, che lo sollecita e lo manifesta.
Ogni fenomeno può essere vissuto in due diverse maniere. Queste due maniere non sono arbitrarie, ma legate ai fenomeni – esse vengono derivate dalla natura dei fenomeni, da due loro proprietà: Esterno – Interno.[2]
Così la presenza dell’idea di spazio invoca ed evoca la correlata idea di confine.
Ma allo stesso tempo, l’idea di confine ci avvicina alle immagini di un dentro e di un fuori il cui ritmo, se avvicinato al nostro più intimo esistere, richiama la differenza tra me e non me, tra io e non io, dunque il confine tra io e te. Tra un privato che sono io e un pubblico che è il mio io più gli altri io.
I luoghi di confine, come del resto le soglie di passaggio, vengono a sbiadire un’ipotetica dimensione problematica di separazione, per addensarsi attorno ad una più umana dimensione del comunicare, resa possibile perché diventa visibile quella distinzione.
L’architettura […] è come una grande scultura scavata nel cui interno l’uomo penetra e cammina.[3]
Dunque l’educazione stessa non può sfuggire ad una riflessione sui luoghi in cui essa eviene ed avviene, poiché essa si agita e agisce proprio sui confini che la determinano come tale: le relazioni tra persone, l’apprendere e i modi dell’apprendere le discipline, i saperi e le loro strutture, gli alfabeti e le loro organizzazioni comunicative, le abilità e le loro possibilità di manipolazione del mondo circostante, la logica e la possibilità di categorizzare la realtà secondo criteri. Così per lo spazio inteso come ciò che dà l’opportunità di abitare insieme ad altri il mondo.
Lo spazio di un’aula perde il suo esclusivo senso fisico di locale che contiene quei mobili, quegli oggetti, quelle suppellettili per inserirsi nel significato di contesto, quando vi entrano una o più persone e immediatamente ne nascono e si sviluppano relazioni. Se lo spazio preso a sé stante può essere immaginato come un vasto foglio bianco, il contesto diventa l’insieme delle scritture possibili che danno origine a narrazioni nel momento in cui gli individui si muovono e comunicano tra di loro. Ciò che a noi si mostra diventa così la “parte” più importante perché “rimanda” ad un intero ben più articolato e vasto.
[…] la logica, la semiotica non ci danno mai il mondo nella sua interezza, ma si limitano a farne cenno. E’ dunque più importante ciò che esse mostrano, che non ciò che dimostrano. I segni appaiono così in certo modo «differenze interne» dello stesso ground; la logica, somiglianza sempre inadeguata dell’ac – cadere del cosmo.[4]
Pensare un contesto è pensare all’unisono la dimensione fisica e la dimensione funzionale. E se nella dimensione fisica l’educare si pone la domanda: quali possibilità offriamo con questi spazi e con questi oggetti, nella dimensione del contesto la domanda diventa: quali messaggi e apprendimenti avvengono sulla base delle organizzazioni scelte, relativamente all’uso di quello spazio e di quegli oggetti. Ma entrambe le domande non sfuggono alla domanda che fa loro da sfondo: quali sono le intenzioni pedagogiche sottese a quell’organizzazione spaziale?
Argomentando questi temi è parso allora interessante mettere a confronto due piccoli contesti spaziali, precisamente due scuole dell’infanzia, “separate” da un reale confine geografico, nello specifico quello tra Italia e Svizzera.
Attraverso l’osservazione di uno spazio educativo e della sua organizzazione, si possono cogliere segni ed elementi che rinviano all’idea di educazione implicita a quel contesto. La dimensione organizzativa di una scuola dell’infanzia dichiara, in maniera oramai condivisa, le risposte ai bisogni dei bambini: l’accoglienza, le attività, la conoscenza, il gioco, il riposo, la nutrizione, la pulizia, la comunicazione che connotano l’essere bambino in termini pedagogici nella odierna società.
Ma questa condivisione è diversamente espressa nello spazio e dallo spazio edificato e organizzato per loro. Osservare ciò che avviene e come avviene che i bambini si muovono in quello spazio, ci porterà a riflettere sulle attese che gli adulti educatori, forse, si attendono da loro nella dimensione dell’essere in sé e dell’essere con gli altri.
Nella realtà
Proponiamo due realtà scolastiche apparentemente simili tra loro per numero di sezioni, di alunni e per numero di insegnanti. Una è quella della Scuola dell’Infanzia Statale di Castiglione Olona in provincia di Varese, in Italia, l’altra è quella della Scuola dell’Infanzia di Gemmo, quartiere collinare di Lugano nel Cantone Ticino in Svizzera. Tra loro una trentina di chilometri e un confine.
Per un breve tempo, due studentesse della Facoltà di Scienze della Formazione Primaria dell’Università degli Studi di Milano Bicocca[5], durante l’anno scolastico 2003 – 2004, hanno avuto l’opportunità di vivere un periodo di tirocinio, al fine di argomentare la loro relazione finale di studi e di formazione professionale, prima di diventare insegnanti per la scuola dell’infanzia.
Una comune “curiosità” caratterizzava l’incipit della loro ricerca: quali idee pedagogiche e culturali guidano la scelta di organizzare gli spazi di qui e di là del “confine”? Come può un confine così labile, espresso da soli 30 chilometri di distanza, indicare un pensare pedagogico in qualche modo differente o comunque differenziabile?
Due le domande che hanno guidato l’esperienza e le relative osservazioni in essa:
· perchè quelle specifiche scelte;
· per chi sono state fatte.
In particolare, per una logica esigenza di “focalizzazione” tematica della ricerca, sono state osservate proprio quelle immaginarie linee di passaggio che rinviano ai concetti di soglia e di confine e che all’interno dei contesti scolastici si mostrano in luoghi e momenti ben precisi:
1. l’ingresso:
2. il pasto;
3. la pulizia;
4. il sonno.
Qui, più che altrove, si “segnano” le linee ideologiche tra autonomia e dipendenza, tra privato e pubblico, tra dentro e fuori. Forse questi confini all’inizio del lavoro neppure s’intuivano, ma è bastato osservare lo spazio nella sua sembianza di contesto, ovvero con tutte le relazioni in movimento, perché queste separazioni immaginarie, ma nei fatti presenti, si manifestassero in tutta la loro forza ed evidenza.
1. L’ingresso
Nella Scuola dell’Infanzia di Gemmo, i bambini entrano da soli, i genitori non accedono allo spazio adibito al cambio delle scarpe e agli attaccapanni per le giacche. Ogni bambino è invitato e accompagnato dalle insegnanti ad imparare e dimostrare una sempre più evidente autonomia verso lo spazio, gli oggetti e soprattutto gli adulti nei momenti di saluto.
Questa idea di un “punto soglia” che delimiti il fuori dal dentro, la famiglia dalla scuola, il fare con aiuto e il fare da solo, si annota nell’ingresso di ogni singola sezione, ingresso a cui non è consentito l’accesso ai genitori e i bambini vi entrano da soli. Nei fatti lo spogliatoio è attiguo, ma separato dalla sezione. E’ un luogo di passaggio preceduto da un corridoio in cui avvengono passaggi di comunicazioni e informazioni tra genitori e insegnanti. Lo spogliatoio ha una forma rettangolare lungo il cui perimetro sono appoggiate delle panchine al di sopra delle quali una lunga mensola sorregge tante scatole di scarpe quanti sono i bambini della sezione. Le scatole, decorate dai bambini stessi, contengono gli indumenti di cambio. Tra due porte, quella che permette l’ingresso alla sezione e quella che comunica con il corridoio d’ingresso della scuola, vi è una seggiolina dove si siede la maestra che accoglie i bambini all’ingresso e li aiuta nelle fasi di sistemazione dei materiali personali. Accanto alla piccola sedia è poggiato a terra un sacco di tela all’interno del quale i bambini depositano i giochi portati da casa, e che potranno riprendere al termine della giornata prima di uscire.
Il “fare da solo” risulta significativo in questo primo momento di ingresso alla scuola e come tale è gestito e proposto ai bambini sia sul piano dell’organizzazione dello spazio che sul piano dell’organizzazione delle procedure. La dimensione privata della famiglia viene dismessa a favore della dimensione privata del sé confrontata nella dimensione pubblica con gli altri.
Le stesse insegnanti in sede di intervista sottolineano:
“Per cambiarsi, i bambini usano uno spazio attiguo alla sezione e adibito a guardaroba. […] Ai genitori non vi è permesso l’accesso, i bambini imparano a fare da soli”.
Nella Scuola dell’Infanzia di Castiglione Olona, l’ingresso è uno spazio comune tra tutte le sezioni. E’ uno spazio a cui i genitori accedono con i bambini per svolgere insieme il momento della sistemazione dell’armadietto in cui vengono riposti sia le giacche che i golfini, che le scarpe cambiate con le pantofole. Di lì i bambini si dirigono verso le proprie sezioni seguendo un breve corridoio che conduce ad un ampio e comune salone, attorno al quale sono situate le sezioni.
Al momento dell’ingresso le insegnanti che prestano servizio nella mattinata sono presenti sia per accogliere i bambini che per scambiare saluti e informazioni con i genitori.
Appare evidente come nella Scuola di Castiglione il momento della separazione del bambino dal genitore risulti protratta fin dove possibile. Il confine casa – scuola, appare qui prolungato all’interno del primo spazio scolastico. L’autonomia primaria è incoraggiata, ma ancora sotto il vigile occhio e l’eventuale aiuto del genitore. L’organizzazione di questo spazio rinvia ad un’immagine ancora fortemente domestica limitatamente ad alcuni atti di cura che probabilmente vengono fatti rientrare nei gesti di protezione e di prolungamento affettivo. La dimensione privata della famiglia ha qui ancora un carattere forte e significativo, l’aspetto della condivisione pubblica è come se venisse rinviato il più possibile.
2. Il pasto
Nella scuola di Gemmo, il refettorio si trova al piano che sovrasta la sezione. In questo piano si trova anche il dormitorio. Lo spazio per il pasto è arredato con cinque piccoli tavoli esagonali per i bambini e un tavolo per l’insegnante. Mezz’ora prima che inizi il pranzo, i bambini che sono stati scelti come camerieri del giorno, con l’aiuto delle inservienti della scuola, vanno ad apparecchiare i tavoli. Questi stessi bambini, al termine del pranzo, hanno anche il compito di collaborare alla pulizia del refettorio. Durante il pranzo, per ogni tavolo, è individuato un cameriere che serve i compagni, ritira i piatti vuoti e rifornisce di acqua le brocche. La maestra mangia da sola al suo tavolo, sopra il quale è attivo uno scalda vivande per mantenere caldo il cibo. Ovviamente l’insegnante controlla l’andamento del pasto, ma, come risulta evidente, la regia dello spazio e la sua organizzazione rinvia ad una sequenza chiara di compiti e di autonomie ulteriormente sottolineate dall’evidente confine tra adulto e bambino visivamente indicato dalle posizioni e dalle dimensioni degli arredi. La dialettica tra responsabilità privata e compito pubblico appare in tutta la sua chiarezza.
Nella scuola di Castiglione, gli spazi del pranzo sono organizzati in due modi: un piccolo refettorio per due sezioni, che comunque vengono mantenute distinte, mentre le altre due sezioni pranzano in classe. Nel momento del pranzo è arredato anche un tavolo da servizio con appoggiati gli oggetti di uso quotidiano. Ogni giorno vengono scelti i camerieri, uno per tavolo, che hanno più incarichi: apparecchiare, servire la prima portata, il pane, l’acqua e sparecchiare. Per il secondo piatto ogni bambino può servirsi da sé. Al resto pensa il personale inserviente. L’insegnante è seduta al tavolo con i bambini e interviene sulla base delle loro eventuali richieste.
L’incoraggiamento all’autonomia è certamente presente, educato e incoraggiato, ma evidenti appaiono comunque ancora i legami e i collegamenti con l’adulto che resta ancora approssimato al bambino. In ogni caso anche in questo contesto il ritmo tra atti privati e atti pubblici appare connotato e ben determinato.
3.La pulizia
Unico sia per maschi che per femmine, a Gemmo, i bambini hanno accesso libero al bagno per tutta la giornata. Il bagno si trova annesso alla sezione. Come annesso alla sezione è il servizio igienico dell’insegnante. Ogni gabinetto è separato da pareti divisorie. Vicino ai lavandini ogni bambino trova il proprio asciugamano, il proprio spazzolino e il proprio bicchiere. Vi sono, rispetto al bagno, due momenti comunitari. Un momento è quello che precede il pranzo: l’insegnante li invita ad andare in bagno per la “pipì” e per lavarsi le mani. Un secondo momento è quello successivo al pranzo in cui tutti vanno a lavarsi i denti. In questo secondo contesto di pulizia viene individuato un bambino nominato “maestro dei denti” che, stando in piedi sopra una sedia, mostra a tutti i compagni il modo corretto di lavarsi i denti. Di tale operazione è calcolato anche il tempo, tramite una piccola clessidra. Questo ultimo passaggio risulta probabilmente l’effetto di una campagna di prevenzione dentale a cui tutte le scuole svizzere sono state invitate. Interessante risulta anche qui la riflessione possibile inerente il confine tra pubblico e privato, là dove il privato può incidere sulla spesa pubblica e dunque, in qualche modo, preventivamente frenata tramite l’educazione di un comportamento privato che ha i suoi benefici effetti sul pubblico. Interessante risulta anche il messaggio di “privato” (riferibile certamente alla pulizia personale), leggibile negli oggetti che caratterizzano la pulizia personale: l’asciugamano, lo spazzolino, il bicchiere. Anche qui la visione di confine ci ritorna come distinzione netta tra io e non io, tra mio e tuo.
Anche a Castiglione Olona il bagno è accessibile per tutta la giornata scolastica. Un basso muretto divide i gabinetti (quattro in tutto), che sono distinti con degli adesivi sul muro in due per i maschi e due per le femmine. Il bagno si trova all’interno della sezione, mentre i servizi per le insegnanti sono esterni alla sezione e ubicati nello spogliatoio del personale. I bambini non hanno oggetti personali, tutto è alla portata di tutti: il sapone nell’erogatore come le salviette singole di carta. Non vi sono lavandini separati, ma un unico lavabo con più rubinetti. Prima del pranzo, come a Gemmo, l’insegnante invita i bambini a recarsi ai servizi per la “pipì” e per lavarsi le mani.
Risulta evidente come l’idea di privato relativa all’igiene personale, che emerge in questa situazione venga meno sottolineata a favore dell’evento pubblico che probabilmente è stato ritenuto di più importante e facile controllo. Crediamo che in sede di progettazione e di arredamento, il pensiero di bambino che ha guidato quelle scelte risultava essere in parte quella di individuo da tenere sotto controllo durante i rituali dell’igiene, e in parte quella di un individuo che non necessita ancora di intimità personale in quei precisi momenti. Intimità che viceversa è richiesta e ben sottolineata per il personale adulto. Nello stesso tempo risulta interessante il bisogno di segnalare la distinzione di genere tra maschi e femmine anche se con una soluzione forse poco elegante.
4. Il sonno
La camera della “nanna” nella scuola di Gemmo, è una stanzetta intima annessa alla sezione. E’ provvista di letti fissi disposti su due piani e dalla possibilità di essere oscurata. Ogni bambino ha il proprio letto con il proprio lenzuolo e il proprio cuscino. Chi lo desidera può prendere un “peluche” da una cesta posta nella stanza. A volte, a discrezione dell’insegnante, viene accesa una musica di sottofondo, altre volte è la maestra stessa che accarezza i bambini nella fase di passaggio al sonno. Il momento del sonno è dedicato ai bambini piccoli e ai mezzani. L’insegnante resta con loro fino a quando si sono tranquillizzati, poi scende nella sezione. I bambini che decidono di non dormire possono scendere in sezione dove, al risveglio, ogni bambino ritorna. Durante il sonno i bambini “grandi” giocano o fanno altre attività nei diversi angoli della sezione.
In tale situazione interessante è nuovamente l’evento connesso con un momento privato e intimo della quotidianità. La cura e l’attenzione posta nell’organizzazione dello spazio relativamente al riposo del bambino ci fa pensare all’importanza data ad un giusto equilibrio tra fare – ascoltare – riposare. Allo stesso tempo risulta interessante il meccanismo di presenza – assenza dell’adulto che resta con i bambini nella fase di passaggio veglia – sonno, ma non resta a controllare i bambini per tutto il periodo del loro sonno.
Nell’organizzazione della scuola di Castiglione Olona, lo spazio riservato al riposo si trova all’interno della sezione: i piccoli dormono su delle brandine per quanto possibile isolate dal resto dei bambini grandi. I bambini mezzani viceversa riposano sdraiati su dei tappeti. Risulta ovviamente impossibile oscurare e rendere silenzioso il contesto perché nei fatti tutti i bambini sono presenti.
L’insegnante si dedica certamente ai più piccoli e al loro addormentarsi; ma certo le condizioni non sono ideali né per lei né per loro.
L’assenza di uno spazio specifico per il momento del sonno ci rinvia ad una scelta architettonica in cui il bambino è considerato come una persona da tenere costantemente sotto controllo, anche in quei momenti in cui più intimo e personale si fa il rapporto con se stessi e necessita di condizioni favorevoli perché ciò avvenga.
Alcune ultime considerazioni
L’attenta osservazione di singoli spazi, operata nel più vasto spazio di una scuola, ha consentito riflessioni in parte certamente inattese.
Si era partiti dal voler mettere a confronto il solo “uso” degli spazi per paragonarne la disposizione e la scelta dei materiali ad essi connessi, al solo scopo di rilevarne il senso e le finalità metodologiche e didattiche implicite. Nei fatti ci è successo quello che alla piccola Alice succede nel Paese delle Meraviglie
Subito Alice vi si infilò dentro, senza neppure darsi pena di chiedersi come diavolo avrebbe fatto a riuscirne.[6]
Il viaggio non può essere che in parte immaginato, ma, di fatto a noi è successo, le parti più significative sono risultate quelle che ci sono “apparse” proprio riflettendo solo sulle “visioni”. In tal senso sono da ritenersi in – pre - visti. Non avevamo in mente di considerare il ritmo dialettico tra privato e pubblico, eppure è ciò che è avvenuto. Ma è avvenuto non per fatto accidentale, bensì perché lo spazio stesso progettato ci ha necessitati verso quella direzione. E’ questa, crediamo, la riflessione più interessante a nostro avviso: nel progettare lo spazio compare simultaneamente la scrittura del pensare l’uomo (e quindi il bambino) nel mondo. Ma in quella scrittura, se tale vuole essere e non semplice “copia”, ogni “scritto” deve essere a sé, ovvero deve rispettare l’attimo storico in cui quella scrittura si situa. Certo siamo abitatori del tempo, ma lo siamo in quanto quel tempo è ritmato sullo “spazio”. Dunque nessuno spazio può essere pensato situato per sempre. Nei fatti neppure l’opera d’arte architettonica lo è, perché non sfugge all’occhio lettore di chi la visita. Quell’occhio la vive con il suo orizzonte di senso e non più con quello originario. Così ci è comparso, in quanto lo abbiamo letto, ma lo abbiamo letto in quanto si è mostrato leggibile il dittico tra io – non io; privato – pubblico; sé – non sé; autonomia – eteronomia.
Ragionare sull’idea di confine e successivamente sugli spazi che rappresentano il confine, ci ha condotti “naturalmente”, a considerare l’importanza di pensare gli spazi progettati sia nella dimensione dei momenti pubblici come nella dimensione dei momenti privati, soprattutto là dove è in atto un processo di crescita. Crescere è distinguersi, è separarsi, è riconoscersi diversi, è verificarsi altro da altri, è costruirsi in sé per sé e per gli altri. Il rispetto della mia unicità non può non essere “segnalata” anche nei luoghi in cui l’altro coabita con me.
[1] Mario Botta, Etica del costruire, Laterza, Bari, 1994, pp. 6 – 7. [2] Wassily Kandinsky, Punkt und Linie zu Fläche 1922, 1968, trad. it. Punto linea superficie, Milano, Adelphi, 2001, p. 7. [3] Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino, 1951, p. 18. [4] Rossella Fabbrichesi Leo, Sulle tracce del segno. Semiotica, faneroscopia e cosmologia nel pensiero di Charles Peirce, Firenze, La Nuova Italia, 1986, p. 167. [5] Airoldi Ilaria, Stefanoni Alessandra [6] Lewis Carrol, Alice nel paese delle meraviglie, (1988), tr. It. Aldo Busi, Milano, Arnoldo Mondatori, p. 16.
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