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  • Immagine del redattoreRita Bartolini

QUANDO UNA SCUOLA RICERCA SE STESSA

Rita Bartolini



Non nego che l’educazione

sia la sezione più modesta della filosofia, ma,

secondo il giudizio dei mortali, essa è sufficiente oggi a conciliare

la benevolenza e a far valere le qualità più serie[1].


[1]Erasmo da Rotterdam, Sulle buone maniere dei bambini, trad. it., Roma, 2000. p. 34.



Considerazioni iniziali

I comportamenti di ricerca all’interno dei contesti scolastici sono eventi sempre più rari e inusuali.

La cultura statistica, ultima tra le mode culturali alle quali il nostro Paese attualmente presta un’attenzione quasi morbosa, e per questo immatura, sembra soddisfare ogni ipotetico interrogativo che riguarda i mondi e i modi della scuola.

Nella realtà questo sembrare è ciò che sostanzia in maniera ahimé riduttiva le anonime cifre statistiche la cui evidenza resta di puro ordine aritmetico se quelle cifre non vengono argomentate e ricondotte ad un insieme di significati in grado di animare quei numeri collocandoli in scene, situazioni, condizioni di più vasta portata significativa.

I numeri necessitano di un dire che solo la più nitida visione delle relazioni, che essi attivano sull’insieme a cui si riferiscono, riesce a dare nel momento in cui ne vengono ricercati gli orizzonti di riferimento, i significati sottesi, gli intenti di orientamento.

Dunque una statistica nulla “dice” nel suo mostrarsi, essa necessita di un evento interpretativo.

L’aspetto statistico si fa ancor più problematico (qualora pretenda una indifferenza rispetto al campo di ricerca), quando viene ridotto ad un’arida elencazione di cifre correlate ad indicatori che intendono indagare i campi dell’educazione. Potremmo anzi sostenere che rinviare alla presunta oggettività del numero corrisponde proprio, per il nostro punto di vista, ad una rinuncia, apparentemente giustificata, di esprimere pensieri riflessivi e critici su ciò che di suo un numero non può dire se non letto, interpretato e collegato con il contesto di riferimento. Se così fosse si dovrebbe credere che le cifre, per il solo fatto di essere appunto cifre, hanno simultaneamente un’oggettività che è anche verità assoluta e incontrovertibile. In realtà il numero è un codice il cui valore di senso va raggiunto tramite un ripiegamento riflessivo sullo stesso. Inoltre le cifre rappresentano il risultato di un percorso che già dall’inizio possedeva un’intenzione di ricerca dimostrativa. E quell’intenzione era già una riflessione o comunque procedeva da un atto riflessivo.

Dunque non esistono cifre a se stanti, ogni cifra appartiene, per rapporto di relazione quantitativa al suo interno o di raffronto tra quantità, ad un contesto che la contiene e che la significa. Se l’atto statistico riguarda la scuola (come ogni altra realtà educativa e di tale contesto), nel momento stesso in cui “misura” stati di cose interne a quel contesto educativo, ne misura simultaneamente ciò che organizza quegli stati di cose, ovvero ne “misura” le relazioni contestuali. Infatti in educazione gli stati di cose altro non sono che le relazioni e trattandosi di relazioni tra soggetti esse non possono essere di ordine oggettivo.

Di suo l’educazione si organizza e si struttura su relazioni la cui caratteristica specifica è proprio l’assenza, o meglio l’impossibilità, di neutralità. La presenza di soggetti sulla scena di indagine rende, proprio perché presenza di persone, la scena stessa sempre e comunque di natura soggettiva, posizionata.

Nessuna relazione educativa può venire detta neutra. Ogni atto, intento, scopo, origine, interni all’educazione ha per sua struttura l’inter-esse. Cioè il fatto che l’agito avviene sempre tra soggetti necessari e necessitanti l’uno all’altro.

In educazione il disinteresse può essere pensato certamente come il fine dell’educazione, ma, altrettanto certamente, non può essere pensato come sua origine. Diventare disinteressati va inteso come percorso di crescita e di maturazione della persona. Raggiungere un livello di disinteresse maturo e consapevole è il risultato di una formazione costante che mette a confronto l’IO individuale con altri IO individuali generando modalità di rapporto che costruiscono il ris-petto, cioè il distanziamento. Tale distanziamento è proprio la coscienza del non possedere l’altro per ritenerlo altro da me. Lo specifico educativo è proprio l’insieme degli atti che consentono la visione intellettuale della distanza tra persone, per questo l’atto educativo, qualsiasi atto educativo, è sempre in relazione.

L’uomo è la sola creatura che deve essere educata. Per educazione intendiamo l’assistenza (nutrizione o cura), la disciplina (governo) e l’istruzione unita alla formazione del carattere o formazione pratica. Di conseguenza l’uomo è prima lattante, poi allievo e quindi soggetto che apprende.

…la disciplina o il governo trasforma l’animalità in umanità. L’animale è già tutto completo grazie al suo istinto; una ragione a lui estranea ha provveduto a tutto per lui. L’uomo, invece, ha bisogno della propria ragione. Egli non ha nessun istinto e deve da se stesso pianificare la propria condotta. Dato che, nato selvaggio, non è nella condizione di farlo fin da subito, deve essere soccorso dall’aiuto altrui. La specie umana deve tirar fuori, gradualmente, dalle sue stesse strutture e con i propri sforzi le qualità specifiche dell’umanità. [1]

Se l’educazione non fosse una relazione tra soggetti, ovvero una struttura in grado di produrre cambiamenti di emancipazione, noi non potremmo giustificare la storia con i suoi cambiamenti di tipo macro sociale e culturale. I risultati del cambiamento vengono interpretati secondo una lettura di documenti, di eventi, di testimonianze, che giustifica e rende affermabile la differenza tra un periodo e l’altro rintracciando, proprio tramite la ricerca dei significati, il tratto di continuità che rende la storia, al contempo, un insieme distinto di periodi e un insieme unitario di sviluppo.

Questo ci dice che la sola evidenza del dato, preso a se stante, non è in grado di “dire” per esteso il suo significato, appunto perché il significato è superiore al singolo dato, così come è superiore alla somma dei singoli dati messi insieme.

Questa osservazione trova in educazione la sua evidenza più immediata e più esplicita.

L’atto del ricercare in ambito educativo diventa atto interessante proprio perché la ricerca si compie mentre gli atti educativi sono in funzione, sono in movimento. Ricercare, in educazione, non può compiersi in maniera asettica o laboratoriale. Non esistono vetrini in grado di contenere relazioni.

La composizione delle scene educative si configura sempre come insieme simultaneo di binomi costanti quali: osservare e fare; pensare e fare; educare e fare; insegnare e fare; istruire e fare; parlare e ascoltare. È in tal senso che si può affermare che qualsiasi indagine di approfondimento in contesto educativo dovrebbe presupporre e realizzare attività di recercazione.

Riferimenti teorici

Kurt Lewin[2] è il fondatore della psicologia topologica, ovvero di quella corrente di pensiero per la quale i fatti psichici avvengono sulla base del contesto che non è mai un luogo neutro. Ogni contesto si caratterizza in valenze positive o negative generate dalle relazioni tra soggetti e situazioni. Tanto più il contesto risulta essere operativo, ovvero generatore di “azioni” (mentali o prammatiche), tanto più il contesto risulta potenzialmente positivo perché in grado di proporre situazioni problematiche e conflittuali da risolvere, sulle quali investire in termini di energie e di strategie.

All’interno del contesto, il rapporto tra soggetto e ambiente non va inteso come un rapporto aderente e corrispondente, ovvero il soggetto non è l’ambiente e l’ambiente non è il soggetto. Non vi è un rapporto di uguaglianza. Infatti, secondo Lewin, mentre il soggetto si caratterizza per avere una struttura relativamente chiusa, l’ambiente si caratterizza come un insieme ricco e articolato di regioni che possono, per effetto di prossimità o lontananza, includersi o escludersi. Dunque le regioni si caratterizzano per uno spazio interno e uno spazio esterno tra i quali il confine, come linea flessibile di demarcazione tra i due, è in costante movimento e revisione. Meccanismi come quello definito di saturazione psichica ne sono una chiara dimostrazione: non viene fatto spazio, ad ulteriori informazioni o richieste, fino a quando il soggetto non percepisce l’apertura di uno spazio in grado di ricevere altro materiale.

Si evidenzia così la struttura psichica descritta da Lewin come quadro topologico rappresentato dalla chiara immagine di regione, o meglio di regioni. Esse cambiano all’evolversi del soggetto: il bambino tanto più è piccolo tanto più è dominato da regioni a struttura rigida il cui numero risulta altresì ridotto proprio perché le regioni si ampliano, si differenziano, si modificano e si arricchiscono con l’evoluzione del soggetto all’interno di relazioni infra regionali che mettono alla prova la flessibilità dei confini tra regioni.

Ecco perché in età adulta le regioni sono più numerose, proprio per effetto del criterio di differenziazione con il quale aumenta la tolleranza e la flessibilità ai contesti.

La differenziazione avviene per effetto di due criteri essenziali

Þ il criterio di distinzione tra il piano dell’irrealtà e il piano della realtà con il quale avviene la tolleranza delle limitazioni (tanto più l’irrealtà viene dimensionata, tanto più la realtà assume una tolleranza accettata e accettabile)

Þ il criterio della prospettiva temporale che appare in grado di superare l’urgenza dell’immediato riuscendo a gestire questo desiderio pulsionale differendolo attraverso l’attesa (tanto più il tempo di attesa degli eventi viene dimensionato dal criterio di realtà, tanto più l’attesa diventa una prospettiva ritenuta legittima, tollerabile e accettabile).

Così come ogni individuo si struttura e si organizza in regioni, anche l’ambiente si articola e si struttura in regioni. Va da sé che le regioni non devono essere intese come puri luoghi fisici, anche se ne sono connotate, esse sono veri e propri contesti in progressiva formazione. Non sono mai date una volta per sempre.

Le regioni possono avere carattere momentaneo o duraturo: il giardino pubblico è una regione momentanea (ma comunque in movimento), la casa è una regione duratura (ma comunque in movimento).

Caratteristica comune delle regioni, indipendentemente dalla variabile del tempo, è il fatto che sono il risultato di proposte, progetti, intenzioni operative, conflitti. Questi caratteri originano una molteplicità di relazioni che si strutturano – destrutturato nel costante muoversi interregionale. Questo fa dire a Lewin che un’altra caratteristica delle regioni è il loro aggiornamento.

Le ristrutturazioni psicologiche altro non sono che l’aggiornamento delle nostre regioni personali. Tale aggiornamento avviene ogniqualvolta subentra una valenza problematica che richiede una risoluzione e un cambiamento. Dall’insieme degli aggiornamenti si hanno le variabili comportamentali.

In linea generale, il comportamento (C) è una funzione (F) della persona (P) e del suo ambiente (A), C=F (P,A). […] indubbiamente, le ideologie, i valori e gli atteggiamenti dell’individuo durante l’età evolutiva dipendono in larga misura dalla cultura entro la quale è cresciuto e dalla sua appartenenza a un gruppo privilegiato o non privilegiato. Riepilogando, possiamo affermare che il comportamento e lo sviluppo dipendono dallo stato della persona e del suo ambiente, C =F (P,A). in questa equazione la persona (P) e il suo ambiente (A) debbono essere visti come variabili reciprocamente dipendenti. In altri termini, per comprendere o prevedere il comportamento, la persona e il suo ambiente debbono essere concepiti come un’unica costellazione di fattori interdipendenti. Denomineremo spazio di vita di quell’individuo la totalità di questi fattori (SpV), per cui abbiamo C = F (P, A) = F (SpV). Lo spazio di vita include pertanto sia la persona che il suo ambiente psicologico. Il compito di spiegare il comportamento diviene allora identico con 1) la ricerca di una rappresentazione scientifica dello spazio di vita (SpV) e con 2) l’individuazione della funzione (F) che connette il comportamento allo spazio di vita. Questa funzione è ciò che comunemente si chiama legge.

[…] dal punto di vista scientifico questi dati debbono essere rappresentati nella loro particolare collocazione all’interno della situazione specifica. Una totalità di fatti coesistenti visti nella loro interdipendenza viene denominata campo. La psicologia deve concepire lo spazio di vita come un unico campo comprendente sia la persona che il suo ambiente.[3]

Possiamo allora dire che la scuola è un campo dove il comportamento è ad alta possibilità di modificazione poiché vi incidono molteplici fattori interdipendenti tra loro: alunni – insegnanti – genitori. E che questi fattori sono simultaneamente manifestazione di regioni, confini, campi, contesti. La scuola, inoltre, è luogo elettivo per la manifestazione di problemi, domande, interrogativi che richiedono un atteggiamento di ricerca costante. La ricerca non è solo il mezzo con il quale sono state prodotte le regole, le formule, le grammatiche che si studiano, ma è soprattutto il modo con il quale l’apprendimento trasferisce una qualsiasi nozione in una struttura molto più profonda e complessa che si chiama conoscenza. Ciò che consente il passaggio dall’informazione alla formazione (nozioneÞconoscenza), è la progressiva maturazione del comportamento critico che trova nell’interrogarsi, ovvero nel ricercare, i suoi perché.

Questa visione ci permette di pensare come interessanti, oltre che auspicabili, forme di ricerca in grado di mettere a confronto gli svariati territori che compongono, all’interno di un contesto, un campo su cui flettersi e riflettere. In tal senso il risultato in termini di conoscenza che se ne ottiene avviene per rapporto, vicinanza e contaminazione tra contesti.

Un autore come Vygotskij collega l’idea di conoscenza a quella di conoscenza situata, ovvero strettamente connessa con i contesti in cui la elaboriamo e la cui esistenza, sensatezza e significanza non può essere appresa se viene decontestualizzata, cioè tolta artificiosamente, fintamente, aleatoriamente da quel preciso contesto di appartenenza. Questo significa che un qualsiasi ambiente di apprendimento, se tale si vuole chiamare, deve preparare attività e contesti di studio reali in grado di riferirsi a contesti concreti e a problemi reali a cui quegli apprendimenti appartengono fuori dalle mura scolastiche nel quotidiano scorrere delle cose e dell’esistenza.

L’interazione sociale sta, dunque, coerentemente con l’apprendimento, poiché ognuno ha la consapevolezza che la conoscenza è sempre una conoscenza distribuita tra le persone, tra gli strumenti, tra i tempi e gli spazi che in ogni attività sono coinvolti. Ogni conoscenza è sempre ripartita tra persone diverse, differenti e spesso divergenti[4].

Ogni conoscenza è ripartita tra diverse fonti di informazione, tra diversi mezzi di utilizzazione, tra diversi interlocutori interni ed esterni all’esperienza di apprendimento, di conoscenza. Considerare la complessità dell’apprendimento, delle sue fonti, dei suoi strumenti e dei suoi spazi e tempi, significa ridefinire, ad esempio, lo stesso ruolo dell’insegnante che, nel prendere atto dei suoi limiti rispetto al sapere, riconosce l’opportunità di distribuirlo in contesti, spazi, tempi, strumenti e soggetti altri[5]. Lo stesso è affermabile per l’atto della ricerca in campo educativo là dove le relazioni tra regioni tali sono perché sono lo specifico delle cornici educative in cui si muovono.

Tutto rinvia all’importanza del concetto stesso di setting figurato[6] ed elaborato ai fini della messa in scena di quella situazione, di quel contesto, la cui cura è tale perchè è pensata per un apprendimento reale in grado di produrre cambiamento e generare bisogno di ulteriori richieste [7].

L’immagine dello spazio corre e ricorre in ogni passaggio fin qui proposto e ad essa è impossibile sfuggire.

Lo spazio prende vita all’esibirsi di tutti i meccanismi educativi, perciò l’educazione avviene sempre e solo nello spazio. La regionalità appartiene alle situazioni educative perché ne è la rappresentazione situazionale (spaziale) diretta ed inevitabile.

Lewin giunge così ad un processo di lavoro funzionale alla motivazione del crescere che definisce appunto ricerca azione.

La metodologia trae origini dalla ricerca sociale applicata. Elemento specifico di questo indirizzo è il fatto che il ricercatore è coinvolto direttamente nel processo stesso della ricerca (Rapoport[8]). Il metodo viene impiegato proprio per sperimentare prassi professionali nel contesto scolastico e nei contesti sociali problematici, e gli esiti dimostrano come tale metodo porti ad un miglioramento della prassi educativa o di insegnamento per il fatto che tutti gli individui, ovviamente a titolo diverso, sono partecipanti alla ricerca e motivati ad una riflessione finalizzata al cambiamento del contesto. In tal senso la ricerca azione diventa partecipata, è uno stile di lavoro, un modo di procedere educativo.

Nei fatti la ricerca azione trova le sue radici nel meticoloso lavoro di Kurt Lewin che lo applica alle scienze sociali tramite un metodo di ricerca partecipata strutturato su sette specifici aspetti:

· la questione su cui riflettere è identificata all’interno della comunità educativa che definisce il problema, lo analizza e lo risolve o comprende

· scopo delle azioni intraprese è la modifica dei comportamenti in quella realtà sociale

· la ricerca è possibile solo se partecipano tutti i soggetti di quella comunità

· trova un interesse specifico di applicazione su situazioni fragili o deboli

· la ricerca ha lo scopo di sollecitare ad una maggiore consapevolezza delle proprie possibilità tutti i partecipanti

· questo tipo di ricerca risulta più significativo perché tutta la comunità è coinvolta

· il ricercatore partecipa alla ricerca come tutti gli altri allo scopo di imparare.

Tutto ciò ci permette di comprendere che la ricerca azione partecipata non si presta ad una ricerca di tipo quantitativo o psicometrico, infatti non ha un compito di generalizzazione. Per questo i suoi strumenti elettivi diventano l’osservazione e la discussione perché conservano l’aspetto relazionale su cui appunto l’indagine si attiva.

L’asse viene dunque spostato dalla ricerca sperimentale che conduce ad una visione potenzialmente conoscitiva ad una visione conoscitiva agita. Può, e questo è il suo intento, migliorare l’atto educativo perché lo inlimpidisce nella conoscenza del contesto direzionandolo alla modifica dello stesso tramite azioni pratiche progettate e realizzate.

Le faglie che vengono toccate sono: l’efficacia, perché le azioni che verranno scelte saranno il più possibile congruenti con l’obiettivo individuato. L’efficienza, perché le risorse attivate avranno come caratteristica il dispendio minimo di energia in quanto vi è una corrispondenza tra ricercatori e campo di ricerca. La soddisfazione, perché essere soggetto attivo e attivante in un processo di disvelamento e di azione, fa percepire il singolo partecipante come determinante all’intero del sistema.

Infine la gratificazione, perché la funzione espressa da ognuno è riconosciuta da tutti e viceversa.

Il meccanismo che regge l’intero percorso di ricerca tende a far aderire il piano del sapere al piano del potere. Ciò significa che prendere coscienza di un aspetto, relativo al campo in cui un soggetto opera, corrisponde simultaneamente ad assumere decisioni e azioni di cambiamento, ovvero lo trasforma in un agito di potere.

Darsi ragione è intraprendere una ricerca di senso: è mettere insieme teoria e prassi.

Nella ricerca azione partecipata non ci si allontana dall’agito lo si riconosce, ce ne diamo ragione, lo si razionalizza e in tutto ciò lo si assume in un senso etico che è dato proprio dal darsi ragione.

Il circolo generativo che se ne produce è il seguente: azioni pratiche ð riflessione educativa sulle azioni ð ricerca dei significati teorici di sfondo ð azioni pratiche, e via di seguito.

Il processo di ricerca azione appare così sempre più nitido. Esso prende avvio, sempre, dall’incontro con una situazione problematica che deve essere definita, analizzata e risolta. Non è detto che una situazione problematica debba necessariamente essere negativa. Problema è anche l’atto riflessivo che interroga su trasversalità esistenziali che cercano di dare ragione delle scelte e delle azioni conseguenti. Scopo della ricerca è la modificazione del contesto in cui il problema emerge, ma tale scopo si avvera, se vi partecipano tutti i soggetti del contesto.

Tale risultato si ottiene perché vengono particolarmente osservate le dinamiche socio - ambientali del contesto stesso. È una modalità di tipo concreto alla cui base stanno aspetti teorici e metariflessivi che l’ambiente fa suoi ricercandone costantemente i perché.

Il risultato diventa una conoscenza contestualizzata, finalizzata a migliorare la pratica educativa con un’assunzione di responsabilità da parte di tutti perché i ruoli sono, pur nella loro diversità agente, equamente distribuiti.

Un contesto educativo non può permettersi di stabilire chi è educatore e chi non lo è, tale divisione pone una contraddizione insanabile rispetto al contesto stesso. Detto questo è simultaneamente affermata l’eticità della ricerca in campo educativo scolastico, essa deve necessariamente riguardare tutti i soggetti appartenenti a quel contesto, viceversa la ricerca risulterebbe immorale.

Orizzonte di ricerca

Al centro della nostra riflessione[9] è stato posto il tema della diversità, correlato all’inclusione di alunni disabili o in difficoltà presenti in quasi tutte le classi presso la scuola. Ritenere che il diversamente abile sia presente nelle classi è fatto oramai storicamente stabile. Non altrettanto stabile è la modalità con la quale questo fatto si connota e denota. Dunque riflettere diventa la condizione di ricerca azione dei modi di fare che rinviano ai modi di pensare circa questo fatto storicizzato.

L’occasione significativa è stata generata da un più ampio e articolato staff di operatori convergenti su una specifica situazione, staff che al suo interno ha posto e si è posto la questione dei vissuti trasversali su questo tema rispetto all’intero contesto che ha fatto suo il principio dell’inclusione.

Gli interrogativi che negli anni si sono succeduti hanno trovato progressivamente un alveo comune in cui inserirsi, quello di riflettere sul valore culturale che il termine diversità assume a vario titolo all’interno di un contesto quale può essere quello di una scuola secondaria di primo grado dopo anni di progettazioni educative in tal senso. Ma doveva essere indagato, osservato e soppesato rispetto a tutti gli attori in scena. Quanto a dire che forse era necessario osservare quanto, del principio inclusivo, c’era di stabile, di assorbito o di transitorio e apparente.

Si è valutato come utile allo scopo l’utilizzo di focus group organizzati per gruppi di persone che discutono, in maniera libera, attorno a poche domande guida.

Con il termine “focus group” si fa riferimento a dei gruppi di discussione, letteralmente intesi come “gruppi focali”, nel senso di gruppi focalizzati su un determinato problema. Lo scopo di un focus group è di ricerca, cioè ascoltare e raccogliere informazioni, punti di vista, opinioni su un determinato oggetto di interesse, di studio e di approfondimento. I focus group sono un metodo di ricerca di tipo qualitativo e hanno come obiettivo quello di approfondire nel dettaglio gli aspetti trattati, piuttosto che raccogliere informazioni su una grande quantità di persone; con questo metodo si punta l’attenzione sulla qualità delle informazioni raccolte piuttosto che sulla quantità.[10]

Le persone coinvolte sono state: alcuni alunni di quattro classi seconde, gli insegnanti delle stesse classi, alcuni genitori, gli operatori della scuola compreso il preside e una figura di consulente pedagogico.

Le domande che hanno fatto da guida sono state le seguenti:

· come riconosco che una persona è diversa?

· qual è il primo atteggiamento davanti ad una persona che è diversa?

· che cosa faccio?

· come penso di poter aiutare una persona che definisco diversa?

· mi è capitato di sentirmi diverso?

Le domande sono state poste ai singoli gruppi e registrate per poi essere trascritte.

Ogni gruppo ha avuto un tempo di circa un’ora e mezza e il conduttore ha avuto il solo scopo di condurre l’azione evitando sovrapposizioni o interruzioni. Nessuno è stato obbligato a parlare e tutti sono stati informati sullo scopo del focus group.

Quale potrà essere l’esito di questa ricerca è presto dirlo perché sono ancora in atto le analisi dei testi registrati.

Ciò che fin da ora è osservabile è certamente la diversificata impostazione concettuale che il termine diversità genera nei tre livelli.

Mentre per i ragazzi la centratura pare andare verso un pensare la diversità come a un disagio superabile solo se gli amici ti aiutano; per gli insegnanti la diversità è percepita come una richiesta di intervento di aiuto soprattutto finalizzato a facilitare o rendere possibili l’accesso alle conoscenze. Anche qui dunque la parola aiuto appare densa e altamente significante. Infine per i genitori la diversità è posta su un orizzonte più di tipo esistenziale, più in relazione con i passaggi dell’esistenza.

Non ultimo e davvero interessante l’interrogarsi su forme attualmente altre di diversità più vicine alla perdita di potere e di capacità. Anche qui, ancora in modo interessante, ritorna il tema dell’aiuto.

Tutto il resto lo potrà dire la riflessione sulle discussioni. In seguito il dire indicherà il fare.

[1] Kant, I. La pedagogia, Roma, Anicia, 2009, a cura di Bellatalla L., Genovesi G., titolo originale Über Pädagogik, trad. it., L. Bellatalla, G. Genovesi, p. 101. [2] Lewin, K., La teoria, la ricerca, l’intervento, Bologna, Il Mulino, 2005, a cura di Francesco Paolo Colucci, [3] Idem, pp. 133, 134, 135. [4] Bruner, J., La mente a più dimensioni, (1986), trad. it., Bari, Laterza, 1988. Fodor, J. A., La mente modulare, trad. it. (1988), Bologna, Il Mulino. Gardner, H., Formae mentis, (1983), trad. it., Milano, Feltrinelli, 1987. [5] Novak, J., D., Imparando a imparare, (1984), trad. it., Torino, SEI, 1995. Pontecorvo, C. (a cura di), La condivisione della conoscenza, Firenze, La Nuova Italia, , 1993. [6] Salomone, I., Il setting pedagogico, Roma, Carocci, 1997. [7] Cimatti, F., Il senso della mente, Torino, Bollati Boringhieri, 2004. Bion, W. R., Apprendere dall’esperienza, trad. it. (1972), Roma, Armando Armando, 2003. [8] Anatol Rapoport (1911-2007), teoria generale dei sistemi. [9] La ricerca è stata condotta presso la scuola secondaria di primo grado Monsignor Manfredini di Varese. [10] Baldry, A., Focus group in azione, Roma, Carocci, 2005, p. 11





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