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Pasticciare per vedere

Rita Bartolini


1.

Dobbiamo a Riccardo Massa il merito di avere segnalato la fine della pedagogia nella cultura contemporanea. Tale denuncia, dichiaratamente provocatoria, esprimeva una critica volta a riaffermare la scientificità e la centralità del discorso pedagogico fondato dalle pratiche e dai contesti del mondo della formazione. Il concetto di dispositivo educativo, ripreso dallo studio appassionato di Michel Foucault, apriva la possibilità di una indagine teorica ed empirica dei processi formativi. Questa prospettiva ha poi preso corpo nella Clinica della formazione, come approccio di ricerca, come metodologia di formazione e di consulenza nell’educazione degli adulti.

2. Dispositivo è termine che è stato ripreso da Foucault e teorizzato anche in pedagogia, ma che oggi viene usato in modo spesso indifferenziato per indicare qualsiasi elemento normativo e istituzionale. In realtà il termine dovrebbe evocare il sistema incorporeo delle procedure in atto nelle istituzioni: scolastica come in qualunque situazione educativa.

Strutturare gli elementi di un setting in un certo modo e non in un altro significa instaurare un dispositivo pedagogico, il cui fine non è dare luogo a una rappresentazione artistica, ma unicamente a permettere la costituzione di soggettività. È un atto in grado di generare la persona, il soggetto, la personalità, la soggettività.

Per Massa l’attenzione è incentrata sul dispositivo pedagogico, cioè sul punto di vista dell’educatore che istruisce testi e contesti potenzialmente in grado di condurre ad emersione le caratteristiche attentive e intenzionali della persona che esperisce quel contesto.

Agamben (Cos’è un dispositivo?) ricostruisce la logica di funzionamento del termine dispositivo nel discorso teorico di Foucault e ipotizza che essa sia intrecciata con una certa eredità hegeliana che giunge a lui tramite l’insegnamento di Jean Hyppolite, suo illustre predecessore alla cattedra del Collége de France. In un testo dedicato al pensiero di Hegel, Hyppolite sottolineò, con evidenza, il ruolo del termine positività nel giovane Hegel. Questo termine indicava come l’elemento storico consiste in un carico di regole, riti, e istituzioni che vengono imposti agli individui da un potere esterno, ma che vengono, per così dire, interiorizzati nei sistemi delle credenze e dei sentimenti. Questa definizione è analoga a come Foucault definisce il dispositivo.

L’ipotesi, però, che si affaccia in Agamben è che l’operatività dei dispositivi attuali funzioni in base a un regime differente.

La tesi è suggestiva, poiché poggia sull’intuizione che la tecnologia contemporanea funzioni su dinamiche di desoggettivazione, piuttosto che sulla produzione del soggetto. Non tanto perché il soggetto sparisca, piuttosto in quanto si dequalifica e si demoltiplica in modo seriale.

3. Le tecnologie comunicative, per esempio, tendono a esonerare il soggetto dall’obbligo di ogni prestazione, a spogliarlo di ogni necessità di agire. In questo modo, viene intaccata la possibilità della profanazione del dispositivo che agisce, perciò, anonimo e indisturbato. La perdita dell’esperienza tipica del telespettatore che frantuma compulsivamente qualsiasi filo conduttore e qualsiasi narrazione possibile attraverso lo zapping, l’esposizione totale delle nostre vite allo sguardo dei sistemi di videosorveglianza, la violazione sistematica della privacy da parte delle strategie di marketing virale, sono solo alcuni segnali del modo in cui la presenza dei dispositivi esercita il proprio potere nella società dell’informazione.

4. La mutazione antropologica del potere contemporaneo passa da qui. Il modo in cui l’economia della conoscenza, per esempio, prende di mira le caratteristiche che definiscono la natura umana, perfino nelle sue determinazioni biologiche e linguistiche, e rimodula tecnicamente il loro funzionamento sembra, infatti, produrre degli effetti di desoggetivazione dell’esperienza. In altri termini, certe prerogative della soggettività vengono ascritte direttamente al dispositivo tecnico che assolve a certi compiti perfino sensoriali e dirige minuziosamente attraverso i propri reticoli informativi i comportamenti individuali. Il soggetto è, quindi, reso, per così dire, isolato dai compiti dell’esperienza: contemporaneamente sgravato e spogliato della possibilità di elaborare una risposta sensata. Con questa specifica determinazione della attuale condizione umana la politica educativa sta già facendo i conti, senza apparentemente averne preso coscienza.

5. L’inconsistenza a cui l’attuale tendenza tecnologica conduce velocemente i nostri atti sembra attivare anche la scelta della dominanza: il contenitore è molto più importante del contenuto. Il nome del cellulare è molto più importante di ciò che ci permette di comunicare. Le funzioni di un PC sono di gran lunga più importanti dei contenuti comunicativi.

Il peso del contenitore ha notevolmente alleggerito il peso del contenuto. Il contenitore compie azioni, atti, processi indipendenti dalle nostre intenzioni. Pensiamo all’uso ipertrofico del linguaggio che compare ad esempio in Whats App, dove quasi tutto è abbreviato. Le frasi risultano ipertrofiche, con notevoli elisioni linguistiche. Il tutto risponde a due esigenze: al bisogno di far giungere in tempo quasi istantaneo (come se il tempo lineare, in successione, proprio della coscienza fosse un ostacolo quasi insormontabile alla comunicazione stessa!) un messaggio; al bisogno di attivare in maniera altrettanto veloce la filiera di tutte le possibili risposte generatrici di ulteriori grappoli comunicativi rapidi e immediati. Queste reti sociali si caratterizzano per l’idea dominante di comunità, infatti generano anche termini fin ora inconsueti come ad esempio il verbo “comunitare”.

Allora la loro caratteristica dovrebbe essere quella di generare comunicazione. Dunque risulta forse utile fare una breve riflessione sul significato di comunicazione.

5. “Comunicazione” ha un significato etimologico di antica origine religiosa. Comunicare voleva dire portare sacrifici all’ara, all’altare. Dunque, se noi ne utilizziamo l’immagine ai fini esemplificativi, possiamo vedere al centro un’ara o un altare e attorno vediamo diverse possibilità di accesso. Tramite gli accessi ognuno si muove verso il centro conducendo con sé qualcosa da mettere sull’ara o sull’altare. Qualsiasi cosa sia, indifferentemente al suo valore e al suo volume, produce, una volta posta sull’ara, un ulteriore potenziamento del fuoco che salendo al cielo ci mette appunto in comunicazione con gli dei.

6. In questo primo passaggio gli elementi di interesse possono dirsi: il movimento e l’oggetto sacrificale.

Il tutto sta a significare che occorre certamente una motivazione e un contenuto intenzionale. Ciò che conta non è dunque l’oggetto sacrificale, questo infatti, comunque sia, va ad alimentare il fuoco. Dunque tutti possono accedere, nessuno è escluso. Perché nessuno è privo di qualcosa da mettere sull’ara. Il che equivale a dire che comunicare non è una variabile indotta dalla quantità degli oggetti comunicati. Se così fosse qualcuno ne rimarrebbe escluso. L’intenzione comunicativa è l’atto portante la comunicazione, non lo è l’oggetto della comunicazione. È questa intenzione comunicativa che per riflesso prende anche cura del suo contenuto comunicativo. Il direzionarsi all’altro rende questa direzione carica di senso etico, cioè del bisogno di portare all’altro ciò che di meglio e di buono abbiamo. Per questo la quantità degli oggetti comunicativi deve recedere ed emergere, invece, ciò che sostanzia la comunicazione stessa.

7. Questa affermazione è valida se consideriamo che la comunicazione mette in contatto due o più persone. Se tale contatto dipendesse dagli oggetti messi nella comunicazione ne avremmo, come conseguenza, che l’altro non potrebbe mettere i suoi, perché non vi sarebbe spazio; tutto lo spazio sarebbe occupato dai miei oggetti che ritengo preziosi, importanti e irrinunciabili.

Quindi per essere tale la comunicazione deve avvenire in uno spazio sacro.

Sacro perché comune, in quanto, insieme, si deve cercare un senso comune. L’intenzionalità comunicativa deve compiere in prima istanza non un riempimento, ma uno svuotamento del sé, ovvero una limitazione del me per condividere il noi.

Dunque noi diventiamo l’ara: ovvero il luogo in cui la progressiva aggiunta di piccole donazioni conserva acceso il fuoco del nostro comunicare.

8. Una volta alimentato il fuoco se ne ha per conseguenza: luce, calore, energia.

La luce illumina la direzione.

Il calore ci dà la sensazione dello stare bene e ci protegge.

L’energia ci dona la forza per andare avanti per decidere, per resistere, per fronteggiare. Possiamo immaginare la comunicazione come una serie di passaggi circolari che contengono un ritmo, ma che nel loro svolgersi non restano rigidi e fissi, bensì dinamici, perché procedono a spirale, quindi in progressiva salita amplificatrice.

9. Ecco allora l’importanza dell’educazione come atto di attesa, come capacità di predisporre la scena; come luogo in cui si può solo edificare e non distruggere. Sempre nella comunicazione c’è un atto di richiesta così come c’è un atto di offerta. Che non si posizionano rigidamente sull’uno o sull’altro; chiedere e dare stanno in ognuno, ma alla condizione che trovino in noi l’edificazione dell’ara. Ognuno di noi è un ipotetico altare sul quale due sono simultaneamente le posizioni: quella dell’attesa e quella dell’offerta. Entrambi gli atteggiamenti sfuggono alla centralità dell’io. Non perché l’io non sia importante, ma perché la condizione sana perché l’io si costruisca è che in ogni ordine del fare ci si possa dimenticare di se stessi e ci si possa appunto dedicare, cioè consacrare. E dedicarsi non è un atto che avviene per solo agito materiale, ma è fondamentalmente un agito ideativo, solo apparentemente improduttivo.

Se riflettessimo sulle forme artistiche contemporanee nella loro intenzionalità più profonda, noi vi troveremmo proprio questa radicale intenzionalità. Cosa domina, ad esempio, nell’arte contemporanea: lo spazio e il colore. Ovvero l’assenza della forma rappresentativa precostituita. Davanti ad una tela di Klee noi non catturiamo l’immagine, noi la contempliamo senza che essa ci nomini il suo oggetto. Solo a questa condizione quella tela è sempre in attesa di essere contemplata.

10. Sul piano educativo questo significa che l’investimento maggiore non è indirizzato al mettere in scena moltissime cose per sostenere che intendiamo dedicarci all’altro. La cura dell’altro passa per una capacità di costruzione dell’attesa fatta di una predisposizione in cui il “vuoto” domina sul pieno.

In cui il mio io con le sue volontà, le sue pretese, i suoi pregiudizi arretra per lasciare che l’altro giunga avvertendosi come atteso e non come posseduto.

L’aspetto della preparazione e della predisposizione prevalgono su tutto.

Ad esempio: per un bambino non è importante possedere tanti giocattoli, ma certo è essenziale che qualcuno giochi con lui.

Perché l’ adulto si renda disponibile al gioco con un bambino è necessario che lo sappia aspettare, dunque svuotarsi delle attese e delle pretese dell’educatore.

11. Molto della attuale pedagogia va proprio nella direzione del predisporre per attendere. L’osservazione diventa il fulcro dell’atto educativo. Possiamo pensare a Dewey e alla Montessori. Possiamo riflettere sulle indicazioni di Munari, quando ha istituito i laboratori per i bambini. Possiamo indirizzare lo sguardo a Malaguzzi, nella scuola dell’infanzia reggiana. Ma possiamo anche pensare a come avvicinare i bambini alla scienza, così come è intesa da Hawkins tramite la teoria del “pasticciamento” quando afferma:

Un tempo molto più lungo di quello comunemente consentito dovrebbe essere dedicato a un lavoro esplorativo libero e non guidato (fase del Pasticciamento) (Hawkins, 1986).

L’ obiettivo primario dell’apprendimento non è dunque un esclusivo imparare e applicare regole, ma intenzionarsi, direzionarsi verso una relazione esplorativa con il “mondo”, per poi aprirsi al confronto autenticamente intersoggettivo sui contenuti disvelati dalla pratica esplorativa stessa.

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