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Rintracciare

Aggiornamento: 3 set 2020

Rita Bartolini




La scrittura rappresenta l’occasione per trasferire un insieme di esperienze personali in una possibile comunicazione inter-soggettiva. Questo atto, apparentemente semplice e spontaneo permette ad una autobiografia, puramente soggettiva, di trasformarsi in storia, cioè di inserirsi nel flusso delle comunicazioni umane documentabili, dunque non più relative al solo soggetto, ma appartenenti all’umanità. E quell’umanità, che entrerà in contatto con quell’insieme di segni significanti prodotti da un singolo, trasporterà quei segni dall’io segnante al noi com-prendente.

Dunque la scrittura non è solo un fatto di trasposizione dal pensato allo scritto, al tracciato o un semplice passaggio dal parlato allo scritto, al rappresentato. Essa è molto di più, perché traccia, una volta per sempre, un gesto la cui significanza prende avvio dal singolo, ma si espande in un insieme incontrollabile di significati, affidati totalmente a chi quei segni li incontra e li fa suoi, facendoli rientrare in un’interpretazione che va oltre l’intenzione primaria dello scrivente. Ritenere dunque che scrivere sia esclusivamente un atto strumentale dell’uomo significa disgiungere la scrittura dall’atto etico che con essa l’uomo realizza con un atto strumentale.

Scrivere è sempre e comunque decidere cosa, come, dove, perché, a chi e quando scrivere.

Dunque scrivere è sempre scegliere, selezionare, stabilire quale parola, frase, messaggio ha maggiore peso lì, in quel preciso momento e contesto, rispetto all’obiettivo e al contenuto previsto e stabilito. L’etica dello scegliere consente ad un qualsiasi strumento di non essere più solo ciò a cui serve, ma di porre le ragioni del suo servire; per questo ogni strumento utilizzato è un asservito. L’uomo è in ciò veramente “artefice” della storia, perché ne è “servo” in quanto ne ha cura, la protegge e la dirige, consegnandola una volta per sempre al tempo. Ma ne è anche “padrone”, perché sceglie con che cosa può servire. È in questa cura servile, ma certo non asservita (comunque tale non dovrebbe essere), che ogni strumento perde l’esclusivo senso tecnologico per assumere il suo significato strumentale.

La penna resta esclusivamente penna, se non la corrediamo del suo significato di uso di scrivere; tali per lo stesso motivo la matita, il pennello, ma anche il computer.

Una tecnica più ricca ed evoluta potrà certo offrire strumenti sempre più efficaci, operare scelte, ad esempio, anche estetiche rispetto al tracciato segnico, ma certo non potrà mai compiere l’atto etico dello scegliere di scegliere. Questa dimensione non appartiene ad alcuno strumento, perché appartiene solo all’essere persona che fa uso dello strumento. Dunque la consapevolezza della scelta è il luogo sul quale e per il quale l’atto pedagogico dell’educare all’uso degli strumenti si applica. Lo strumento non potrà mai essere di più o addirittura superiore alla persona: nessuno strumento, per quanto utilissimo, necessario, prezioso, può da solo scegliere la sua stessa direzione di senso. Questa spetta al soggetto che lo utilizza.

Una penna d’oro è solo una penna d’oro; un lapis è solo un lapis; un gesso è solo un gesso. La loro solitudine strumentale è superata dall’essere accompagnati dalla persona che li direziona.

Persona e strumento stanno insieme da sempre.

Tracciare segni, stabilire le loro corrispondenze, il loro significato e decidere a chi consegnarlo o indirizzarlo, non sono eventi che prendono avvio con il solo processo di alfabetizzazione convenzionale scolastica.

Il tracciato segnico è simultaneo all’individuo. È simultaneo perché ogni individuo nel percorrere l’esistenza necessita anche di segnarla, di prolungarla tramite qualcosa che supera il proprio confine fisico, mondano, mortale. Deve, perciò, necessariamente affidare ad altro e ad altri questa possibilità, affinché si realizzi a prescindere dalla sua contemporanea presenza corporea, materiale.

L’uomo lascia segni perché l’idea di prolungare il suo essere (intesa come idea di immortalità dell’essere dell’esistenza), è un bisogno strutturale.

L’esperienza del limite, percepito come io confinato (in uno spazio e in un tempo), è superabile proprio nel prendere consapevolezza che lo spazio non corrisponde al solo limite corporeo, ma ha una sua prosecuzione ulteriore proprio lì dove la nostra pelle sembra concludere il mondo individuale, comunicandoci un senso di fine e di limite non ulteriormente esperibile.

Ma quello spazio ulteriore, chiamato esterno, è sperimentabile alla condizione che si lasci tracciare, cioè ci dia la possibilità di cedere ai nostri segni, alle nostre intenzioni, che sia penetrabile e calpestabile dalle nostre orme. In questa possibilità di prolungare il dentro nel fuori si può pensare e rendere esperibile il concetto di continuo che l’idea di spazio ha in sé e per sé contiene.

Confini e limiti, barriere e contorni, sono il risultato successivo dell’azione di separazione che l’uomo, nello svolgersi della sua storia, ha costruito e concettualizzato. Lo spazio, in sé e per sé, come del resto il tempo, non può possedere limiti, separazioni definitive. È l’io che attiva, per distanziamento e per difesa, il duplice concetto di dentro-fuori, mio-tuo, presente-assente.

Scrivere, disegnare, dipingere, tracciare, imprimere non sono atti che avvengono su di un fuori da noi, ma su un continuo spaziale che dunque non è un che di separato, non è un diverso da me, ma è un continuo stabile e costante in cui la molteplicità dei miei atti si sostanzia nelle relazioni probabili e possibili che appunto si definiscono relazioni. Infatti quelle relazioni sono l’insieme dei collegamenti tracciabili e rintracciabili visibili e ravvisabili in comunicazioni agite, tramite strumenti asserviti allo scopo di collegare i soggetti tra di loro in spazi e tempi non necessariamente simultanei. Tra questi la scrittura è uno dei tanti modi con i quali la comunicazione si intenziona e si condensa.

Comunicare e usare comunicazioni si implicano l’uno con l’altro in una inscindibilità che caratterizza simultaneamente l’io e il noi che mai risultano separabili se non nell’atto di metacognizione che su essi si applica concettualizzando e meta-riflettendo. Nella reale esistenzialità l’io e il noi stanno insieme così come insieme allo spazio esistenziale stanno i singoli spazi percorsi, così come insieme al tempo esistenziale stanno i singoli tempi esistiti. Il tema dell’uno e dei molti è tema inscindibile nella riflessione sulla persona. La sua unicità non nega la sua molteplicità, così come la molteplicità non nega l’unicità. Se così fosse andremmo a sostenere, nel primo caso, l’assolutismo dell’uno soggettivo; nel secondo, la frantumabilità del soggetto.

Ogni gesto, atto, segno, mediante i quali il soggetto intraprende la direzione comunicativa verso l’altro intende certamente trasferire un singolo contenuto, ma nel suo manifestarsi trascina con sé l’interezza del soggetto, perché, pur nella particolarità argomentativa, quel contenuto è insieme parte e tutto del soggetto comunicante, in quanto la parte necessita del tutto per dirsi appartenente al soggetto da cui proviene e il soggetto necessita della parte per indirizzare un’intenzione di senso. I modi diventano così occasioni e costruiscono stili. I modi si configurano come l’insieme dei segni che consentono la rintracciabilità di quell’uno che è la persona a cui l’esistenza consente di percorrere la vita, producendo tracce di un sé condivisibile. Ma nella realtà cosa è condivisibile? Appunto il sé che diventa il dono gratuitamente allocato in ogni possibile comunicazione. Comunicare è darsi in quanto soggetto. Dirsi io è già dichiararsi soggetti: soggetti a cosa? Alla comunicazione.

Per questo possiamo sostenere che da sempre, cioè dalla nascita in avanti, ogni nostro comunicare è un comunicar-si-ci e l’importanza del disinibire l’intenzione è superiore ad ogni limitazione strumentale con la quale esprimere una comunicazione.

Il segno lineare o circolare al termine del quale un bambino afferma che quella è una casa, trova, nell’intenzione comunicativa, lo specifico che supera la reale aderenza tra segno e oggetto rappresentato. È questa intenzione che produce la risposta “che bella!” espressa dal genitore o dall’insegnante. Quel segno acconsente alla relazione, si flette al suo movimento, al suo dirsi, farsi e dirigersi.

La scoperta dello spazio esterno su cui imprimere segni significanti non è correlabile con il solo inizio della scuola primaria, dove scrivere è atto di impostazione formalizzata e codificata soggetta a valutazione.

I bambini tracciano segni e ne stabiliscono significati come del resto leggono segni e ne stabiliscono significati fin da molto piccoli. Essi ne intendono l’importanza infrasoggettiva, ne indagano il funzionamento, ne scoprono le regole, ne immaginano gli scopi. Dunque l’intenzione alla comunicazione mediata da segni non è attivata nel solo momento evolutivo in cui il bambino entra nel percorso istruzionale formalizzato. Se così fosse, la sua storia prenderebbe avvio esclusivamente dal momento in cui la convenzione scritturale entra a far parte della legittimità del comunicare inscritta in segni appunto condivisi, che consentono l’espressione di contenuti assolutamente personali.

Accedere a segni, avvicinarsi a strumenti, utilizzare mezzi, acconsentire l’uso di ogni tipo di codice per educare al senso della comunicazione sia attiva (agita e intenzionata) che passiva (subita e ricevuta), consente di sollecitare una frequentazione costante e disinibita all’importanza della stessa.

Ma allo stesso tempo consente anche un’attenzione e una cura dell’evento estetico della comunicazione che non è atto tra tanti: è atto unico e irripetibile.

Dunque comunicare tramite un qualsiasi strumento è un fatto che andrà curato e reso accurato, proprio perché è con esso che, in prima persona, faccio partecipare l’altro di una decisione, di una scelta che mai più potrà essere disgiunta dalla mia identità personale come del resto da quella unicità comunicativa.



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