Rita Bartolini
Il possibile contesto di inclusione memorabile: la scuola
1.Noi potremmo ritenere che la scuola, in quanto Istituzione, racchiude il suo compito in quel capitolo costituzionale per il quale se ne fa obbligo ai fini di un diritto che è quello di essere istruiti.
Ma noi sappiamo, per esperienza diretta in quanto insegnanti, studenti o comunque cittadini, che all’interno del contesto scolastico la condizione dell’istruzione avviene in una rete di relazioni che è ben più del solo evento istruzionale ottenuto con simboli, codici, saperi e discipline.
L’istruzione è all’interno di un’idea molto più ampia e significativa rispetto alla sola edificazione di strutture disciplinari. Se così non fosse le discipline troverebbero in noi esclusivamente un’eco replicante se stesse. Un risuonare puramente di ripetizione, senza riuscire a tessere il loro indirizzo disciplinare, ovvero l’orizzonte di direzione, la motivazione e l’intenzione che le muove, le orienta e le accresce.
Dunque l’istruzione acquista una direzione di senso nel momento in cui si posiziona nella comunicazione interna all’individuo e esterna tra individui. Così entra a far parte di un tessuto la cui estensione e intenzione diventa atto educativo perché approssima un individuo a se stesso e un individuo all’altro in una comune ricerca, in una vicendevole comprensione, in una possibile sperimentazione e restituzione personalizzata di ciò che è per un verso insegnato e per un altro verso appreso.
2.Queste vicendevoli intenzioni le cui posizioni non restano stabili dal punto di vista dell’interpunzione comunicativa tra soggetti, infatti si è simultaneamente insegnanti e alunni in modo alternato, caratterizzano la situazione educativa di apprendimento.
I processi educativi avvengono all’interno di contesti istituzionali, la scuola è uno di questi contesti, ma a differenza di altri non lo è in maniera generica perché ha la caratteristica di essere in larga parte obbligatoria e vede passare lungo il suo territorio spazio – temporale – relazionale tutti i cittadini di questo Paese.
Tale occasione è unica ed è irripetibile all’interno della vita di ognuno di noi. Pertanto si deve avere chiaro il senso educativo complessivo riuscendo ad individuarne il suo specifico.
3.Nel percorso scolastico ognuno si attende di poter essere messo nella condizione favorevole all’insegnamento e all’apprendimento.
Ma se noi aggiungiamo all’atto dell’insegnare e dell’imparare il valore di senso che dirige sia l’insegnare che l’apprendere, cioè l’educare ed essere educati, allora va aggiunto, o forse sarebbe meglio dire che va portato alla luce ciò che li contiene e dà loro la loro giustificazione ad essere tali.
Questo contenitore non è altro che la coscienza dei due processi.
Nessuna disciplina presa a se stante, per quanto importante, utile, articolata, funzionale, ha di se stessa la sua coscienza.
Ognuna di esse è un insieme di segni, codici, teoremi, strutture linguistiche, sillogismi, racconti, poesie, sculture, …
Ma non è nulla fino a quando non entra nella relazione con l’altro.
4.Costruire un simbolo, produrre un codice, scrivere un racconto, sono atti intenzionali e intenzionati alla comunicazione dell’oggetto. O meglio, forse dovremmo dire che l’oggetto è conduttore di un significato senza il quale non avrebbe senso che l’oggetto fosse.
Dunque chi lo pensa, chi lo progetta, chi lo scolpisce, chi lo dipinge ed esegue, lascia per sempre all’altro, agli altri, il compito di accettare quell’atto e apporvi due movimenti non contenuti nell’oggetto originario: la sua comprensione e la coscienza di quella comprensione che non appartengono originariamente né all’oggetto né al soggetto costruttore perché ad-vengono solo quando l’opera si dona e s’incontra con l’altro da sé.
In questo modo potremmo dire che si costruiscono due coscienze: quella del soggetto edificatore (opere d’arte, leggi, teoremi,…) che deve essere in grado di comunicare qualcosa sulla quale ha in sé riflettuto e considerato affinché potesse essere comprensibile, e quindi comunitario e accomunante; e quella del soggetto ricevente l’edificazione sulla quale si china per pensarne il senso per lui e farla rientrare a questo punto nella propria coscienza comunitaria.
5.Dunque qualsiasi opera, simbolo, codice, pensiero, teorema, … vive di due tempi: quello contemporaneo al costruttore e quello estemporaneo al costruttore. È ciò che conserva un qualsiasi oggetto in quella che definiamo la storia condivisa, quella dell’umanità.
Ma questa storia tale si dice alla sola condizione che appunto riesca a trasferirsi nella memoria collettiva e diventi qualcosa di memorabile, cioè degno di appartenere ad una reminiscenza attorno alla quale si aggrega interessata e riflettente l’umanità. Allora se noi ritorniamo al nostro discorrere primario comprendiamo che fino a quando gli oggetti non diventano intenzionali alla comunicazione essi restano silenti, sono muti.
È la coscienza di questa intenzionalità che li immette nella comunicazione e li rende parlanti. L’artista che è davanti ad un pezzo di marmo imprime a quel materiale silente un linguaggio, cioè un’intenzione comunicativa, quando gli trasferisce la coscienza di un senso, di un pensiero riflettuto e consegnato al marmo perché il marmo lo rappresenti e lo consegni agli altri. Lo stesso vale per una qualsiasi altra opera d’arte, opera scientifica, opera architettonica, teatrale, musicale, …
6.Dunque in quale momento noi superiamo il silenzio per entrare nella parola, nei segni, nei simboli, nei codici, qualsiasi essi siano?
Nel momento stesso in cui noi ci troviamo nella condizione dello stupore, ovvero nella necessità di fermarci di fronte all’oggetto per imprimervi la nostra intenzione. Lì dove la sosta si fa non evitabile, lì la necessità di riflessione produce linguaggio, produce linguaggi. E il linguaggio diventa memoria, o meglio conduce quel silenzio a volersi tradurre in modo memorabile non più al solo io, ma al noi, cioè alla storia ovvero alla comunità dei memori. Passare dal silenzio alla comunicazione è fare proprio il salto dal solo mio al nostro. Dal conservato al donato. Ma in questo passaggio avviene anche il passaggio dalla coscienza personale fatta di sola autoriflessione, alla coscienza storica di un pensiero condiviso, ovvero nostro.
E perché noi dovremmo fare questo salto dal silenzio alla memoria, cioè al linguaggio comunicante? Perché lì dove ci siamo arrestati stupefatti incontriamo il buon esempio.
7.Certo, il buon esempio. Perché questa è l’edificazione, la costruzione, la scrittura. Edificare è produrre buoni esempi, ovvero dirigere l’azione verso il bene che bene è alla condizione che sia comune, accomunante, comunitario. Un bene singolo, un bene per se stessi non è bene, è piacere: nasce, si consuma, si spegne. Non c’è traccia. Non c’è scrittura. Eccoci arrivati lì da dove abbiamo preso il nostro avvio.
Non siamo tornati, siamo arrivati, cioè ci ritroviamo in quel luogo finalmente vedendolo. Dunque con qualcosa che prima era lì, ma non lo vedevamo. Per vederlo abbiamo dovuto togliere progressivamente i veli che nascondevano la possibilità dello stupore.
8.Nel precisare inizialmente che l’istruzione presa a sé stante non era sufficiente, volevamo dire, ma lì eravamo ancora silenti, che la sola istruzione offre certo informazione, ne può fornire tanta, forse anche troppa e per questo diventare pesante e vincolante.
Ma l’informazione per diventare formazione si deve liberare dell’interesse che una qualsiasi informazione può, se presa singolarmente, contenere e pretendere. La formazione non è mai un atto individuale, essa si nutre dell’incontro con l’altro, si alimenta di confronto e di dialogo, cresce con l’altro perché insieme consegna quei dialoghi alla memoria degli uomini.
La scuola è, crediamo in assoluto, l’occasione per edificare stupore, ovvero quei punti soglia di silenzio che si aprono alla costruzione di parole che incontrano parole, cioè saperi.
E il silenzio si edifica in spazi di attesa ovvero in luoghi dove è esperibile lo stare bene insieme. L’esperienza del bene comune produce ideazioni buone, prassi buone, desiderio di un bene per il bene. Allora ogni atto, ogni gesto, ogni opera, ogni segno, va, percorre, cerca il giusto sentiero, quello che porta al bene non per appropriarsene ma per riconoscerlo lasciandolo sempre incontaminato.
Certo diventa davvero comprensibile l’affermazione “Il male è banale”, appunto non ci porta da nessuna parte.
Nel male non c’è stupore, c’è solo angoscia. L’angoscia è assenza di razionalità.
9.Nascono qui tante domande e l’educazione ha proprio questo compito: rintracciare i luoghi del bene dell’edificazione, cioè del costruire buoni esempi. Ed essa, l’educazione appunto, è quella che ci introduce sui buoni sentieri, lo fa ad ogni titolo in ogni luogo per ogni modo. E lo fa interrogandosi proprio sulla possibilità di esprimere esemplarità. Potrà un’aula essere soglia di silenzio se il disordine, la sporcizia, la sciatteria ne dominano la scena?
Potrà una lezione essere soglia di silenzio, cioè stupore, cioè nascita di parole dialoganti se è costruita sull’imposizione, sul timore, sul controllo, sul sospetto, sull’indisciplina, sull’impreparazione e la superficialità?
Potrà un edificio scolastico essere soglia di silenzio, cioè luogo d’incontro dialogante pronto alla costruzione di buoni esempi, se il suo impatto ambientale frantuma ogni possibilità di stupore e produce solo senso di occlusione?
Potrà una norma essere luogo di silenzio se è solo richiamo all’obbligo e non al dovere?
Potrà un bambino camminare a fianco del bene se non incontra lo stupore di essere ascoltato, aiutato, protetto, guidato, incoraggiato?
10.Ogni contesto è, in quanto luogo animato da umani, chiamato alla vocazione del bene. Perché là dove l’uomo incontra l’uomo sempre si apre all’educare, al fare silenzio, all’aspettare, all’ascoltare per insieme decidere l’edificazione. Ma quale edificazione: quella del buon esempio.
L’uomo si è trovato nel mondo quando il mondo si è trovato preparato e disposto ad accogliere l’uomo.
Il mondo si è predisposto per attendere questa venuta.
Terra, acqua, aria, animali, vegetali.
Potrà l’uomo lasciare il mondo avendone curato lo spazio della sua futura assenza non come vuoto, ma come attesa? L’assenza non è mai solo assenza è sempre simultaneamente costruzione di attesa. Predisporre l’attesa è costruire buoni esempi, indirizzarci al bene.
Noi uomini abbiamo il senso della riconsegna? Noi uomini abbiamo il senso della storia come progressivo percorso della riconsegna e non dell’appropriazione? A chi tocca costruire questa coscienza? La scuola c’entra? L’atto politico ha una responsabilità?
Anche le discipline, in quanto luoghi abitati dai linguaggi dell’uomo, devono indirizzare al bene. Ecco dunque la nascita della coscienza, che non è il sapere le cose, ma è il sapere come le cose devono stare per stare bene.
Sapere come stanno le cose è un fatto che riguarda l’istruzione, sapere come le cose devono stare per stare bene è fatto che appartiene all’atto politico dell’educazione. Esso imprime un esercizio di responsabilità che per questo e in questo produce appunto eventi memorabili: cioè degni di definirsi memoria umana.
Per questo noi possiamo affermare che la memoria non si produce a posteriori per effetto di documentazione, se così fosse noi saremmo solo nell’istruzione. Ma qui saremmo anche all’interno della “banalità del male”.
La memoria si costruisce prima che l’atto si compia, essa trova la sua edificabilità nell’abitudine a pensare bene, a sapere che ciò che noi incontriamo e tocchiamo va riconsegnato a se stesso amplificato e arricchito dall’incontro avuto con Esso.
Quell’alunno che incontro, quella classe che incontro non mi appartengono, devo riconsegnarli e in questo vi è una sacralità che contiene appunto la coscienza di questa comune disappartenenza.
Ma per pensare bene ognuno di noi esperisce questa possibilità nel momento in cui condivide il suo con l’altro per giungere ad un nostro.
11.Riflettere dunque sul significato di contesto può aiutarci a individuare e comprendere meglio quali possono essere le caratteristiche che organizzano un contesto educativo.
In questa riflessione ci può essere d’aiuto una simultanea riflessione sull’architettura.
Sia l’atto educativo che la progettazione architettonica hanno come esito la costruzione della storia. Infatti la prima traccia la struttura della personalità dell’individuo in rapporto al suo mettersi in relazione con altri, la seconda traccia il rapporto tra l’uomo e il territorio e l’ambiente superando l’idea di singolo per inserirlo nell’idea di comunità. L’una e l’altra sono nei fatti i possibili costruttori della memoria umana. Memoria che non è ricordo, perché non è l’esito a posteriori di ciò che merita ricordare, ma è memoria perché pone le scelte del senso che è necessario ricordare, in quanto si assume nel qui e nell’ora la responsabilità di scegliere ciò che dovrebbe diventare esempio e indicazione di senso, non semplicemente atti contingenti o temporanei. Quando si costruiscono relazioni il tempo che le sostiene è l’eterno perché una relazione è data per sempre. Di qui il significato della costruzione del contesto come il luogo spazio – temporale in cui sia in educazione che in architettura si traccia e rintraccia il senso dell’esistenza, o meglio dell’essere.
Così sia il contesto educativo che il contesto architettonico dovrebbero trovare nelle scelte politiche il loro aspetto di massima responsabilità che supera una qualsiasi scelta individuale, parziale, temporanea, per mettersi in una relazione equilibrata e rispettosa della comunità presente e della comunità che verrà a cui ognuno appartiene perché ogni scelta del qui e dell’ora trova il suo sviluppo e il suo senso nell’ulteriore più in là: diventare uomo adulto, diventare paese o città.
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La vita progettata: costruire attese e realizzare ipotesi
1. Ogni esistenza prende avvio da un pensiero che lungo i nove mesi di gestazione produce immagini, attese, progetti e speranze. Il momento della nascita realizza, per sua parte, il passaggio da quel pensare alla realtà dei fatti, collegando cioè l’immaginato con il realizzato, in una forma di accordo talvolta più aderente, talvolta più distante da quel pensiero.
La relazione tra pensato e realizzato dipende in parte dai processi educativi endogeni presenti nell’istituto genitoriale, in parte da fattori esogeni caratteristici delle istituzioni statali la cui consistenza varia al variare dell’età e dei contesti esistenziali ad essa collegati. Il rapporto tra i due istituti, quello familiare e quello statale, non è definibile come rapporto stabile in termini di garanzia di presenza ed equilibrio di rapporto. La loro relazione, infatti, ha caratteristiche di intensità e di durata che variano al variare del tempo di crescita del bambino, di invecchiamento dei genitori, di alternanza di governi, di modifica di leggi.
Il primo istituto, quello familiare, risulta, alla nascita di un bambino, obbligante e quindi dato per assoluto e scontato al punto che rinunciare ad un figlio genera un clima di sospetto e di accusa che si traduce in un forte senso di colpa e di fallimento nel genitore. Per l’istituto statale, invece, non assolvere ai compiti istituzionali, spesso a carattere assistenziale, non sembra compromettere il proprio mandato etico e istituzionale e comunque non genera mai senso di colpa. Infatti alle eventuali insolvenze, transitorietà o parzialità delle risposte si può trovare giustificazione estrinseca appellandosi a contrazioni economiche, cavilli burocratici, slittamento dei tempi, cambi di orientamento politico.
Se nel primo istituto il soggetto coinvolto è la persona genitore ben definita e ben definibile, nel secondo istituto il soggetto coinvolto sono le funzioni: il medico con i protocolli di intervento, l’assistente sociale con le procedure assistenziali, i riabilitatori con le pratiche di allenamento o compensazione, le commissioni di valutazione. Ciò che deve essere fatto è decisamente più importante del chi lo fa.
Forse in questa prima distinzione si palesa con forza e con chiarezza che all’istituto genitoriale si può riconoscere una configurazione di persona, viceversa all’istituto statuale si può riconoscere una configurazione di funzioni.
Nascere dunque non avviene in una situazione tra istituti a identica configurazione, o meglio non lo è o rischia di non esserlo tanto più l’asse del bisogno e della richiesta si approssima all’istituto statale. Si potrebbe dire che tanto meno si ha necessità di stato tanto più si è persona tra persone, tanto più si ha necessità di stato tanto più l’essere persona diventa funzione di funzioni.
2. Dipendere inizialmente dal solo istituto della famiglia presenta apparentemente più garanzie di approssimazione tra l’idea di figlio e la realtà che con la nascita si fa corrispondere.
Dipendere da due istituti, famiglia e stato, rende quell’idea molto più complessa da corrispondere.
Quasi sempre la corrispondenza tra il pensiero dell’attesa di un figlio e il figlio nato subisce una modificazione, ma non sempre questa modificazione avviene per processo naturale e evolutivo. In alcune situazioni la modificazione è richiesta e imposta da un insieme di fatti non calcolati nel pensiero originario, in altre è rigettata perché avvertita come intollerabile. Questo è sovente l’esito che si genera in presenza di un bambino con deficit. Il rapporto pensiero – essere sembra infrangersi e con esso è come se venisse mortificato il senso di progettazione che la nascita di un bambino da subito mette in movimento: le decisioni educative che danno origine agli atti educativi e alle scelte educative.
Il movimento della progettazione è la modalità con la quale l’educazione imbriglia e supera il rischio di essere ridotta ad allevamento per introdursi all’etica della persona. Infatti è nella progettazione che ogni singolo atto quotidiano abbandona il solo senso della ripetizione fine a se stessa, tipica appunto dell’allevamento, in quanto ripetizione circolare degli atti garanti l’atto stesso, per dare a quella ripetizione una costante sensatezza. Ovvero, anche gli atti ripetuti, routinari, tipici ad esempio della primissima infanzia, corrispondono stabilmente al rapporto tra richiesta e risposta, tra persona e persona.
Nel rapporto tra domanda e risposta si edifica progressivamente la comunicazione. Essa, nel suo stare tra persona e persona, non appartiene né all’una né all’altra, ma transita dall’una all’altra mediante l’insieme dei segni con i quali si dichiara. Dunque in questo non appartenere ad alcuno la comunicazione è un di più, che è tale proprio perché non è mai uguale a se stesso. I modi del chiedere e i modi del rispondere non sono mai identici, infatti la comunicazione si muove costantemente pur nell’apparente ripetizione della scena in atto.
Il neonato che piange perché ha fame muove la mamma a dargli il latte: la scena si ripete identica diverse volte al giorno. Ma quella richiesta è diversa dalle precedenti così come quella risposta è diversa dalle precedenti. Tutto l’atto comunicativo è intriso di questa diversità, pertanto assume modi, segni, atti, computati in maniera diversa. Questa molteplicità di scritture per un verso conferma la stabilità del risultato: chiedere cibo e dare cibo; per un altro verso mostra un caleidoscopio di proposte che ottengono lo stesso risultato pur in presenza di diverse modalità di computazione. Questo molteplice, pur nello stabile, è il di più che solo la comunicazione possiede.
Dunque questa stabilità trova senso non nel ripetersi sempre uguale, ma nel ripetersi (ripetere a se stessa) il perché di quell’atto. Questa domanda non esiste nell’allevamento. Ed è proprio perché quella stabile domanda è presente in ogni atto educativo che la persona che abbiamo davanti non è mai la persona corrispondente all’idea che noi abbiamo di lei. Essa ci sfugge, è oltre, è altrove. Ci costringe ad una costante riprogettazione.
Se dovessimo portare agli estremi confini queste riflessioni, ci accorgeremmo che la storia dell’umanità è la storia della comunicazione. Della comunicazione umana.
L’uomo si è mosso nell’universo con una costante esigenza di interrogare e interrogarsi. È così che ha incontrato l’altro uomo: quello che non gli appartiene, ma senza il quale non potrebbe costruire il senso di umanità. La storia è per eccellenza l’idea concreta di progettualità. In essa ci sono tutte le scritture, ma nessuna può esaurire la persona, perché ad ogni domanda la risposta possibile non è mai quella persona.
Ogni domanda, così come ogni risposta, fa spazio alla persona ma non la possiede.
La persona si dà, non è data.
Progettare è dunque la dichiarazione massima di questa astinenza da possesso, perché la progettazione muove la realtà in tutte le scritture comunicative possibili in grado di dirsi.
La figura dell’educatore come la figura del politico dovrebbero farsi carico di questo senso totale di persona e per questo aprirsi costantemente alla progettazione.
Qui ed ora anche lo stato diventa consapevole della persona, perché dismette le sue funzioni in quanto funzioni e le muove in quanto progetti.
Uno stato che predispone affinché la persona si dia, è uno stato libero tra liberi.
Ogni sua istituzione interpreta questa libertà al massimo della sua responsabilità perché non interpreta la sua funzione, ma predispone le sue istituzioni a lasciarsi mostrare la persona.
3. Si tratta allora di andare a riflettere quanto l’idea di progettazione, e quindi di persona, appartenga sia all’istituto genitoriale che all’istituto statale, fermo restando che per parlare di progettazione necessariamente entrambi gli istituti devono riconoscere che la persona si dà e non è data.
All’inizio di un percorso di vita di un bambino con deficit domina il sentimento di fronteggiamento, l’urgenza di arginare ansie e bisogni specifici.
In parte la spinta va nella direzione del fare, in termini di attivismo che ammortizza lo stress indotto da un evento quasi mai previsto e inizialmente quasi sempre rifiutato. In altra parte va nella direzione di richieste rivolte alle strutture statali nella speranza che le risposte possano essere salvifiche e risolutive, oppure sostitutive, quindi di totale affidamento e rinuncia al compito genitoriale, vuoi per paura di essere incapaci, vuoi per fuga dal ruolo.
In questo primo contatto tra i due istituti, famiglia e stato, rappresentato nei fatti, almeno all’inizio, dall’ospedale da una parte e dai genitori dall’altra, si potrebbe dare avvio realmente ad una progettazione, ovvero ad un percorso educativo condiviso.
Perché ciò si realizzi occorre che i due istituti riconoscano la persona per come si dà e non per come si vuole che si dia.
Per un verso, quello genitoriale, il rischio potrebbe essere quello di porre domande il cui contenuto vuol far corrispondere le risposte all’idea originaria che si aveva prima della nascita di quel bambino. In tal senso nessun progetto è possibile, perché la condizione progettuale è quella di rispettare le modalità con le quali quella persona si mostra e non come noi vogliamo che si mostri.
Per l’altro verso, quello statuale, il rischio potrebbe essere quello di non vedere quel bambino, il mostrarsi di quella persona, ma l’etichetta alla quale la nosografia lo fa appartenere e alla quale lo dobbiamo ricondurre in termini di bisogni legittimati. Anche qui nessun progetto è possibile perché il suo specifico mostrarsi è opacizzato dalla visione scientifica o protocollare che vuole ingabbiare in regole e procedure certe e consuetudinarie ogni possibile futuro.
La progettualità sfugge, per suo movimento, alla ripetizione, alla copia, al fare uguale. Sfugge allo scontato, al certamente è così, a ciò che è previsto.
La progettualità costruisce situazioni, scenografie, proposte, spazi, ma poi aspetta e osserva. Lì, per ogni dove costruito, la persona si dà e il suo mostrarsi è una via costante della progettualità, e ogni via è parte di un progetto che prima non poteva essere.
Prendere coscienza della progettualità è prendere consapevolezza della visione che si ha dell’altro. L’altro è l’altro da me o è il me che voglio. Nella seconda modalità nessun progetto è pensabile e dunque l’altro non si mostra.
La distanza è condizione della progettualità come lo è l’assenza di volontà di potenza per la quale solo ciò che ci corrisponde ha valore. Lasciare che l’altro si mostri ha una implicita condizione: che noi ci sappiamo nascondere.
Ogni posizione politica si annulla se il suo movimento consiste nel volere che la realtà corrisponda al pensiero già deciso unilateralmente. L’assenza di progettualità è l’assenza dell’altro, tutto lo spazio è occupato dal me istituzione.
Ogni posizione educativa si annulla se il suo solo movimento consiste nel regolare il comportamento dell’altro secondo principi già decisi, già valutati. L’assenza di progettualità è l’assenza dell’altro, tutto lo spazio è già occupato dal me educatore.
Progettare è dunque lasciare che l’altro si dia.
4. Tutto ciò cambia l’ordine delle domande e l’ordine delle risposte. Dunque cambia la comunicazione.
Ma questo cambiamento è dato dalla consapevolezza che il senso proprio e ultimo degli interlocutori in scena è quello di far crescere insieme la persona che hanno davanti a titolo certamente diverso ma a scopo altrettanto certamente identico.
Dunque quel bambino è persona fin dalla sua nascita, lo è in maniera integra e intera a prescindere dagli interventi che, anche in forma di urgenza, si potranno o dovranno attuare. Anche quelli sono il suo essere persona, e non nella maniera speciale o eccezionale, ma appunto personale, è il suo darsi.
Quel bambino si dà e nel suo darsi mette le istituzioni nella condizione di istituirsi non come funzioni, ma come progetti. Ogni progetto d’uomo è simultaneamente progetto d’essere, lo legittima, lo disvela e consente alla storia di essere ciò che deve essere: umanità.
Il setting lezione
Tra le varie situazioni mediante le quali il meccanismo insegnamento – apprendimento recitano il loro spettacolo, la lezione appare ancora la più utilizzata, ma anche la più faticosa e forse, la meno semplice da controllare. Nel parlare di controllo non intendiamo riferirci alla totalità delle variabili esplicite ed implicite contenute in una lezione, tale controllo va ritenuto “impossibile” se teso al possesso simultaneo dell’intero, ma non per questo fallimentare. Anzi la sua flessibilità relazionale è data proprio dall’inevitabile impossibilità di monitorare l’intero reticolo intersoggettivo nel quale soggetti e contenuti si muovono. Tale limite è l’aspetto più prezioso della scena didattica della lezione perché ne conserva le aree dell’imprevisto e le aree dinamiche dei rapporti intersoggettivi.
In tal senso riflettere sulle dimensioni che caratterizzano una lezione ci permette di mettere a fuoco taluni orizzonti osservativi, consapevoli nel contempo che la riflessione deve risultare parziale se vuole lasciare spazio all’approfondimento tematico individuale e di gruppo.
Per dare un ritmo espositivo al nostro ragionamento, utilizzeremo il procedimento interrogativo, ponendoci quelle domande che paiono appuntarsi nel mentre si va costruendo – osservando, una qualsiasi lezione.
1. Quali funzioni deve svolgere una lezione (perché la lezione?), quale funzione assume nel processo formativo?:
· Trasmette informazioni
· Trasmette concetti
· Dovrebbe razionalizzare eventi caratterizzanti quel gruppo trasportando l’impressività ad un livello superiore di conoscenza e raziocinio
· Dovrebbe proporre e produrre schemi e modelli interpretativi relativi a quel contenuto.
La lezione, dovrebbe avere un aspetto di economicità, nel senso che dovrebbe raggiungere scopi precisi nel minor tempo possibile con un dispendio energetico, in termini di accesso, comprensione e rappresentazione, limitato.
Essa tende all’omogeneità, nel senso che conduce alla fuoriuscita dalla confusività tramite la dipendenza da una persona riconosciuta competente (ad esempio il mentore). Con ciò non va inteso un meccanismo necessariamente passivo, poiché la cura della qualità della lezione ha proprio il compito di abbassare, o comunque contenere, questo rischio. La lezione ha anche un compito clinico, nel senso che dovrebbe curare la/le situazioni emotive che si palesano nel suo sviluppo nelle forme dell’impotenza, della frustrazione, dell’insuccesso, dell’inadeguatezza.
2. Quali possono essere le modalità di comunicazione più efficaci, cioè come la lezione può muoversi?:
Prima di tutto ogni lezione è preceduta da un momento preliminare di preparazione – progettazione al fine di individuare:
· Gli obiettivi, cioè cosa voglio dire, dove voglio arrivare, quale messaggio voglio trasmettere, cosa voglio ottenere
· I destinatari, a quale livello di conoscenza sono, quale preparazione hanno, a quale modello culturale fanno riferimento (strutturalista? costruttivista?), quale cosa si aspettano, come sono abituati ad interagire, quale linguaggio utilizzano (possibili fraintendimenti)
· Le modalità di applicazione, lezione aperta? Lezione chiusa? Lezione dubitativo – problematica?
Questa fase avviene in un momento intimo e riflessivo dell’insegnante con il contenuto da proporre per valutarne il peso e le modalità di proposta a quel preciso contesto classe.
3.In quale momento avviene la lezione, cioè quali sono i momenti in cui è fruita?
· Inizio anno
· Fine anno
· Durante l’anno
· Inizio settimana, metà settimana, fine settimana
· Inizio mattina, metà mattina, fine mattina, pomeriggio.
La vita mentale individuale sia del singolo alunno come del gruppo classe (determinata appunto dal preciso momento storico in cui si trova), incide sulla comprensione dei messaggi e sulla permeabilità degli stessi. La variabile temporale favorisce o distorce l’ingresso del messaggio. Dire e dare ciò che è utile in quel preciso momento è compito di un’accurata messa in scena della lezione. Per questo devono essere curati:
· Introduzione – sviluppo – conclusione dell’argomento
· Chiarezza espositiva del contenuto
· Tempo lezione minimo – tempo preparazione massimo (sono inversamente proporzionali)
· Tempo di disponibilità ricettiva (più o meno estesa in base all’età)
· Scelta dei materiali di sostegno.
4.Chi è il responsabile della lezione che azioni opera su di sé?
· Cura l’ascolto, nel senso che ascolta
· Controlla il narcisismo, nel senso che controlla il suo io con le evntuali tensioni alla volontà di potenza
· Conserva e nutre il concetto di servizio, nel senso che questo è il senso profondo dell’educare
· Gestisce lo spazio, nel senso che cura le attese positive dell’altro arredando la scena con segnali direzionati al bene, al buono e al bello.
5.Qual è il contenuto della lezione? Che cosa trasmette?
Una lezione contiene sia una Grammatica (affatto discutibile), che un Pensiero (molto discutibile).
· La sua finalità è l’apprendimento (il più possibile stabile)
· L’azione pedagogico – didattica prevede l’articolazione in forme che favoriscono l’iniziativa del singolo, l’autodecisione, la responsabilità personale di chi apprende, processi di autovalutazione, di programmazione e pianificazione.
6.Qual è la relazione in atto? Quale dinamica intercorre tra docente e uditorio?
All’interno della lezione sono in gioco due dimensioni: una reale, quella appunto tra docente e allievi; l’altra fantasmatica.
Nella relazione fantasmatica si muovono tre immagini:
· l’immagine percepita da chi ascolta = come appare il docente ai suoi occhi
· l’immagine desiderata = l’immagine che il docente vuole dare di sé, cioè come desidera apparire
· l’immagine autopercepita = come il docente appare a se stesso mentre lavora.
Va da sé che raramente le tre immagini coincidono! Il più delle volte vi è un movimento pendolare tra il seduttivo e il paternalistico. In ogni caso, sullo sfondo, si trovano i nostri rapporti originari sia come docenti che come alunni (vedi il rapporto uno – tutti, vedi la percezione dell’alunno nel setting lezione).
Taluni indicatori di massima ci possono aiutare a tenere sotto controllo il nostro lavoro di docenti nel momento espositivo della lezione:
· snellire e rendere fluido il linguaggio per rendendolo efficace, quindi di facile e immediata comprensione sia per precisione terminologica che per chiarezza espositiva
· la sintesi è frutto di allenamento (passare coraggiosamente all’utilità della forbice)
· appropriarsi del termine “spiegare” per costruire esemplificazioni a carattere sia materico che di immagini
· l’organo target da raggiungere, da parte di chi parla, è l’orecchio e il sistema attentivo di identificazione e riconoscimento
· curare il “far vedere”, il mostrare, l’esemplificare (dire e mostrare)
· evitare di mentire con esemplificazioni che non hanno correlazione con il contenuto
· pretendere da se stessi di approssimarsi, di aspettare, di ri – spettare i tempi di reazione e di metabolizzazione dell’altro
· coltivare il silenzio con i suoi tempi di attesa
· saper aspettare senza andare in ansia.
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Ritardo mentale: gli aspetti pedagogici ed educativi
1.Ragionare e riflettere attorno ai temi che riguardano il ritardo mentale e le malattie genetiche conduce la pedagogia ad affrontare gli aspetti relativi alle relazioni tra soggetti, agli spazi in cui le relazioni vengono vissute e ai tempi all’interno dei quali le relazioni si articolano nell’ordine della successione esistenziale ed evolutiva. L’educazione ha proprio questo compito metodologico e progettuale di intervenire sulle modalità delle relazioni dal punto di vista degli stili, delle espressioni, e degli aspetti normativi di cui ogni relazione è interprete, allo scopo di ridefinire gli spazi vissuti e gli oggetti investiti di senso. L’educazione sa che non esiste relazione che non viva, che non si strutturi in uno spazio fisico, reale, definito e organizzato. Così come sa che relazioni e spazio stanno e si muovono in un tempo la cui fluenza si articola in ritmi come ad esempio il prima e il dopo, l’adesso e l’allora, l’oggi ieri e domani, il subito e “fra un po’”. Affinché l’educazione possa “fare” il suo mestiere, quello cioè di modellare o rimodellare le relazioni, gli spazi, i tempi e gli strumenti, il primo atto consiste in un’attenta osservazione del dato corrente, di quello cioè in atto, quello che ci fa dire, in maniera il più possibile documentata, come quella situazione appare, si comunica, viene detta ed è organizzata.
2.La documentazione non rappresenta l’evento giudicativo dello stato di fatto; la documentazione rappresenta l’occasione della raccolta di informazioni sulle quali operare una riflessione critica per la ricerca di indizi, tracce, indicatori funzionali all’elencazione di domande che fenomenologicamente emergono e si focalizzano in merito ai perché, al dove, al come, al quando, con chi, con che cosa quei fenomeni evengono, originando possibili progetti di risposte.
Questo primo passaggio non è propriamente scontato, perché non sempre alla definizione diagnostica corrisponde un’accurata lettura di quella diagnosi rispetto a quel singolo bambino, a quel singolo soggetto.
Una volta definito il quadro diagnostico, il rischio potenziale consiste in una lettura categoriale che fa corrispondere la persona alla diagnosi e non la diagnosi alla persona. In tal senso il primo passaggio dovrebbe proprio consistere in una attenta e documentata “narrazione” di “che cosa” quel bambino fa e sa fare negli ambienti in cui vive. E questo verbo fare deve proprio guidare il confronto e la raccolta di informazioni che, in parte, ci daranno delle ricorrenze, ma in parte ci descriveranno delle dis-correnze.
3.Elementi continuativi ed elementi discontinui segnano e tratteggiano le diversità indotte e dedotte dalla varianza dei contesti, delle persone in scena e delle relazioni in atto. Per chi si occupa di educazione tali informazioni permettono di avvicinarsi a non poche conoscenze indirette del “cosa” faccia quel bambino, quando, ad esempio, è a casa, quando va in vacanza, quando è nelle case di amici, quando gioca da solo, quando gioca con altri, quando è in palestra, o in piscina e via dicendo. Ogni situazione è fatta di relazioni, di occasioni comunicative e comportamentali. Di agiti diretti o indiretti. Le narrazioni così raccolte costruiscono in parte quadri rappresentativi omogenei che confermano atteggiamenti, reazioni, stereotipie, rituali, strategie di risoluzione di impacci o di difficoltà. Ma in parte tratteggiano e indicano novità comportamentali, diversità di reazioni, personalizzazione di sequenze operative, novità comunicative. La visione binoculare ottenuta per rispetto di tutte le narrazioni, ci consente di limitare o comunque correggere il rischio del pregiudizio per cui, individuata la patologia, ci si attende in forma analitica tutte le caratteristiche che quella patologia indica in maniera elencativa. Questa riflessione ritengo che sia fondamentale per aiutare sia i genitori che gli insegnanti e gli educatori, ad evitare un atteggiamento rischioso, ovvero quello della patologia partecipativa, secondo la quale il “mio” modo di fare nei confronti di quel bambino diventa una sorta di adesione preconfezionata di tutte le risposte che prevedo, comunque, di dover possedere aprioristicamente, ancor prima che la relazione si muova in forma appunto di relazione. Così la patologia riceve solo un’azione di congelamento dal suo essere detta, senza legittimarsi al dirsi, ovvero all’evolvere i suoi modi, i suoi fare.
4.Come pare evidente dal mio punto di vista, quello appunto educativo e pedagogico, è l’ordine del fare che guida sia la ricerca che l’intervento.
Nell’odierna letteratura affermare che vanno individuati “Bisogni Educativi Specifici” (BES), significa proprio uscire dal preconfezionato per indirizzarsi ad un progetto educativo costantemente rivalutato, riformulato e riprogettato. Certamente l’approccio multidisciplinare risulta quello più ad alta possibilità di risposta e di soddisfazione per il bambino, perché garantisce l’opportunità di investire di senso un più articolato numero di relazioni e di comunicazioni, ottenendo, nel contempo, una più alta possibilità di raggiungere la persona in virtù di una più ampia possibilità di scelta.
Davanti a bambini con ritardo mentale e malattie genetiche siamo spesso misurati e confrontati con comportamenti che nella maggior parte dei casi sono da ricondurre ad una sorta di intolleranza alla realtà circostante. Una realtà fatta di convenzioni già definite e definitorie, di norme già stabilite e socializzate, di applicazioni operative già standardizzate. Nella realtà il bambino con ritardo mentale ci misura con una scala di misurazione quasi sempre non aderente a quella convenzionale. Nella maggior parte dei casi l’intervento educativo si attua nell’ottica di una adesione il più possibile corrispondente delle sue manifestazioni comportamentali a “quelle” norme ottenute per effetto di esercizio ripetuto. In tal senso il concetto di integrazione appare falsato perché non è il risultato vicendevole di un cambiamento; è la disintegrazione del comportamento dell’uno a favore del comportamento dell’altro.
All’interno delle classi le insegnanti riportano dettagliate descrizioni di comportamenti problematici che di conseguenza richiedono aiuto specifico e indicazioni educative che tentino di dare risposte non solo all’insegnante, ma anche ai compagni, le cui domande sono legittime e valide tanto quelle degli adulti. I compagni sono risorse comunicative importanti e valide anche nelle situazioni più apparentemente compromesse sul piano della comunicazione intenzionale, perché producono effetti di cambiamento senza apparenti atti direzionali. In realtà noi sappiamo che ad ogni atto comunicativo dichiarativo ne corrisponde uno altrettanto significativo, anche se non direttamente dichiarativo. Quando si pone la domanda se è meglio che il bambino stia in classe o fuori dalla classe con l’insegnante di sostegno (domanda molto delicata nella fase interpretativa), non si è probabilmente tenuto conto dell’intreccio tra esplicito ed implicito, tra detto e non detto, tra visibile e invisibile; non si è tenuto conto che le relazioni (orizzontali, verticali, trasversali), nel loro muoversi comunicano e dunque agiscono, ottenendo effetti imprevisti e imprevedibili.
Il tentativo iniziale di ogni percorso di crescita inserito nei contesti sociali risulta essere soprattutto di contenimento e di difesa. Questi atteggiamenti sono largamente indotti dal bisogno di garantire all’organizzazione istituzionale la sua funzione e i suoi insiemi ordinati.
Possiamo annotare come narrazioni che si ripetono, quando viene descritto il bambino con ritardo cognitivo a scuola, un elenco direi tendenzialmente scontato:
· i rituali
· le fobie
· la dissociazioni tra linguaggio e pensiero
· fenomeni di ipersensibilità (ad esempio l’iperacusia)
· gravi difficoltà nella gestione dell’imprevisto
· incapacità nel tollerare le frustrazioni
· difficoltà ad adeguarsi ad alcune richieste
· difficoltà nel comprendere spiegazioni
· difficoltà nel gestire la risoluzione di un compito o di un esercizio
· difficoltà o incapacità di tollerare i cambiamenti anche semplici nell’arco di una giornata o di un evento
· disarmonia evidente nelle autonomie personali (es. uso dei soldi o uso dell’orologio)
· discrasia tra utilizzo del linguaggio e riconoscimento del contenuto del linguaggio stesso
· discrasia tra talune capacità strumentali (ad esempio il calcolo matematico), e l’applicazione di queste capacità in competenze transferenziali (ad es. calcolare la spesa)
· difficoltà nel riconoscere l’altro e gli altri come partner, come coetanei, come amici,…
· improvvisi interventi verbali incoerenti con la situazione in atto
· imprevedibili scoppi di grida
· disorganizzazione spaziale e temporale
· …..
All’insieme di questi comportamenti corrisponde in maniera interrelazionale una serie altrettanto significativa di risposte socio-emotive quali
· La simpatia
· Il fastidio
· L’accudimento
· Ipervalutazione
· Ipovalutazione
· La prossimità
· La distanza
· Attesa
· Disattesa
· Fiducia
· Di sfiducia
· …..
Domina nell’insieme una netta ambivalenza che dichiara molto spesso come il contesto familiare e sociale siano incapaci di raggiungere una mediazione relazionale normata, cioè equilibrata, cioè corrispondente ai bisogni reciproci.
L’insieme di tutti questi descrittori conduce quasi sempre ad una richiesta di contenimento della situazione Quindi le domande più frequenti in ordine all’intervento educativo, sono relative al come contenere il bambino, come evitare che si manifestino con impetuosità queste “stranezze”, come risolvere questi “disturbi” disturbanti.
5.In realtà nessuna possibilità di contenimento risulta possibile e costruibile, se non modificando il contenitore all’interno del quale il soggetto e i soggetti si muovono, agiscono e fanno. Contenitore e contenuto non posso essere scissi nel momento dell’intervento, poiché rappresentano i due punti ineludibili della relazione. Non si può richiedere il cambiamento di un bambino senza contemporaneamente produrre cambiamento nei soggetti e nei contesti in cui quel bambino vive. Dunque ancora una volta torniamo al bisogno di fare e non di essere; il cambiamento è un atto che si compie in ordine al fare e non all’essere. L’essere risulta irrangiungibile e invisibile alla nostra osservazione e al nostro agito; noi registriamo fatti; dunque solo quelli possiamo osservare e modificare.
Se noi prendiamo ognuno dei descrittori poco sopra elencati e lo immaginiamo narrato da un insegnante o educatore o genitore, ci colpiscono due fattori:
1. che la risoluzione di quei comportamenti non avviene in maniera spontanea e dunque non possiamo semplicemente attendere che il comportamento passi per pura successione temporale
2. che appare urgente il bisogno di uno spostamento dal lì, dove l’evento problema accade, ad un là dove l’evento problema può trovare o trova una sua pacificazione o modificazione, ma quel “là” deve essere progettato.
Proviamo allora ad indicare riferimenti concreti, ovvero una breve serie di esemplificazioni che chiariscono e documentano il piano del pensiero sin qui esposto. Per molti bambini con ritardo cognitivo l’avvicinamento o la prossimità alla norma convenzionale deve prendere avvio da una mediazione che si muova dal loro stato di realtà, dal loro fare.
6.Se mi trovo nella situazione di un bambino con ritardo mentale o con malattia genetica, quasi sempre sono misurato col suo bisogno di mettere in atto rituali estenuanti. Ad esempio quello fissativo del dopo, “e dopo?”, che viene riproposto ad un ritmo meccanicistico. Prendere questo fatto ed includerlo nella realtà della classe ha significato produrre, su un semplice modello a parete, un palazzo in verticale con delle finestre a cui erano aggiunte delle tende. Le finestre del tempo che regolano i momenti delle giornate secondo il progressivo aprirsi di tende che segnano visivamente, dunque concretamente, il succedersi tra ciò che ora sto facendo rispetto al dopo che ancora deve avvenire e dunque deve ancora aprirsi. Questo semplice arredo visivo, posto nell’aula, ha significato una più autonoma gestione dell’ansia del dopo da parte di quel bambino, ma ha fornito tutti gli alunni di un sistema di riferimento a cui ognuno comunque poteva accedere. L’inclusione è la possibilità di esperire una molteplicità di codici e dunque di comunicazioni. Tale esperienza è l’esperienza della diversità di ciascuno condivisa comunitariamente con l’unitarietà della classe.
Ma così potremmo dire delle fobie o delle paure degli eventi improvvisi che alcuni bambini con ritardo evidenziano, anche con comportamenti eclatanti e preoccupanti per adulti e compagni. Avere semplicemente costruito dei piccoli fantasmi di cartoncino che si possono estrarre quando l’evento improvviso sopraggiunge, dando al bambino la possibilità di distruggere quel fantasma, ha significato legittimare la paura e il timore fisicizzandoli e “agendoli” direttamente.
Ripensare il registro delle stringhe-frasi dell’insegnante durante le spiegazioni è stato ad esempio il bisogno di un bambino che non era in grado di reggere emotivamente e cognitivamente una articolata argomentazione proposta con un eccessivo numero di subordinate. Stabilire che era necessario un linguaggio paratattico e non ipotattico ha significato abbassare i comportamenti reattivi di tipo oppositivo, ma è servito anche ad altri alunni per meglio comprendere i messaggi disciplinari.
Bambini che non sanno procedere secondo un piano di lavoro autonomo rispetto a compiti, consegne o esercizi, possono essere facilitati o meglio resi capaci, con semplici accorgimenti che gli consentano di avere presso sé una linea di percorrenza orizzontale o verticale che gli mostri i vari passaggi con dei simboli convenzionali. Ad esempio per un bambino può funzionare l’idea di essere su una Ferrari e che ci sia una pista in cui vi è lo start e l’arrivo e che lungo il percorso vi siano dei “pit stop”.
E così potremmo continuare nelle esemplificazioni.
Ma qui ciò che ci interessa è il fatto che mediare in ordine alle didattiche, ai metodi e alle strategie corrisponde all’allontanarsi dal rischio pericoloso di atteggiamenti ambivalenti che in parte nascondono le difficoltà attraverso un “buonismo non risolvente”, oppure con una presa in carico, la cui unica modalità operativa consiste nella correzione comportamentale per effetto di esercizio coercitivo ripetuto.
In realtà la questione del metodo non può essere universalizzata; essa è la risposta singola, dunque da costruire, di quel bambino, di quella famiglia, di quella classe, di quel contesto. Ogni metodo trova nel rendersi flessibile alla personalizzazione del singolo individuo il suo reale senso e significato. Viceversa, ritenere valido un metodo per il valore che viene assolutizzato dello stesso, significa, a parere di chi scrive, spogliare di senso proprio l’idea di metodo.
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Riflessioni pedagogiche sul ritardo mentale
1. Ragionare e riflettere attorno ai temi che riguardano la fatica dell’apprendere conduce la pedagogia ad affrontare gli aspetti che caratterizzano le relazioni tra soggetti, tra soggetti e spazi vissuti, tra soggetti e tempi esperiti, tra soggetti ed eventi emotivi correlati alle relazioni. Tutto avviene nell’ordine delle cose che caratterizzano lo scorrere esistenziale, il fluire del quotidiano, di ciò che definiamo vita. Dunque anche il “doposcuola” che agli occhi di tanti risulta come una condizione meno significativa, meno importante, più sfuocata rispetto all’intervento scolastico o domestico, in realtà ha il suo specifico educativo in virtù del fatto che sta nel tempo ordinario della vita, in quello scorrere quotidiano attraverso il quale fluisce il tempo del nostro stare nel mondo con gli altri. Dunque è un tempo vero, reale, è un tempo di crescita e di responsabilità che chiede rispetto e tensione, che invoca serietà e impegno progettuale. L’educazione agisce ed è agita in ogni relazione in cui essa compare e si organizza. L’educazione, di suo, ha questo compito metodologico e progettuale di intervento sulle modalità delle relazioni dal punto di vista degli stili, delle espressioni e degli aspetti etico - normativi di cui ogni relazione è interprete, allo scopo di ridefinire gli spazi vissuti e gli oggetti investiti di senso.
L’educazione sa che non esiste relazione che non viva, che non si strutturi in uno spazio fisico, reale, definito e organizzato. Così come sa che relazioni e spazio stanno e si muovono in un tempo la cui fluenza si articola in ritmi come ad esempio il prima e il dopo, l’adesso e l’allora, l’oggi ieri e domani, il subito e il fra un po’. I ritmi stanno alla base di ogni attimo dell’esistere, non vi è evento esistenziale che non sia nel medesimo anche un ritmo perché legato al meccanismo dell’attesa del dopo, del qualcosa che non c’è e che si attende. Ogni essere umano è in sé un organismo proattivo, cioè dotato di aspirazioni, di attese. Queste aspirazioni e queste attese stanno appunto nei ritmi esistenziali che lo caratterizzano fin dalla nascita.
Dunque l’educazione compie i suoi agiti in questo meccanismo di stasi – attesa, e questo meccanismo è il luogo in cui l’educazione trova il suo senso e indirizza i suoi atti scelti e progettati.
2. Affinché l’educazione possa fare il suo mestiere, quello cioè di modellare e rimodellare le relazioni, gli spazi, i tempi e gli strumenti, il primo atto consiste in una attenta osservazione del dato corrente e in atto, quello che ci fa dire, in maniera il più possibile documentata, come appare quella situazione, come è comunicata, come è narrata e organizzata.
La documentazione non rappresenta l’evento giudicativo dello stato di fatto, la documentazione rappresenta l’occasione della raccolta di informazioni sulle quali operare una riflessione critica per la ricerca di indizi, di tracce, di indicatori in grado di generare domande che fenomenologicamente s’impongono e circoscrivono i perché, i dove, i come, i quando, i con chi, i con che cosa quelle situazioni evengono e ci interrogano richiedendo un intervento, delle risposte e delle scelte.
Questo primo passaggio non è scontato.
Non sempre l’atto educativo prende il suo avvio da una consapevolezza del contesto, talvolta il continuismo, dettato da un procrastinare ciò che è stato fatto prima come un bisogno di prolungamento di ciò che è detto funzionare, o dal tradizionalismo del “si è sempre fatto così”, oppure l’applicazione di ricette che altrove hanno funzionato, spingono nella direzione del soddisfare l’urgenza dell’immediato, che poi diventa il fare definitivo quello che a questo punto deve funzionare per forza piegando tutti a questo e non questo a tutti. Questo rischio si fa tanto più alto, tanto più si correla a situazioni di difficoltà, di diversità, di allontanamento dall’usuale.
L’usuale è ciò che riteniamo conosciuto e posseduto e per questo ci fa stare bene. In tal senso un bambino o un ragazzo con una diagnosi di ritardo mentale rischia spesso di rendere urgente il fare dell’educatore, cioè l’agito sul bambino perché appunto il desiderio è quello di ricondurre all’usuale. Qui non si desidera negare l’importanza del fare, ma riflettere sul “cosa fare”.
3. Ad esempio, non sempre alla definizione diagnostica corrisponde un’accurata lettura di quella diagnosi rispetto a quel singolo bambino, a quel singolo soggetto.
Una volta definito il quadro diagnostico, il rischio potenziale consiste in una lettura categoriale che fa corrispondere la persona alla diagnosi e non la diagnosi alla persona. E la corrispondente categorizzazione della persona ad un insieme dato può ulteriormente rinviare ad una seconda categoria che è quella degli interventi previsti per quella casistica. Questi a loro volta possono rinviare alla categoria degli strumenti più opportuni da applicare, e via dicendo.
Il meccanismo che si viene a creare è quello della ipercategorizzazione in cui l’insieme si frantuma in tanti sottoinsiemi in cui all’inizio vi è il soggetto che viene inserito in una prima categoria, successivamente i due in un’altra, i tre in un’altra ancora, e via dicendo. Ma questa frantumazione porta inevitabilmente alla frantumazione del soggetto originario da cui avevamo preso le mosse, soggetto che per accezione terminologica mai appartiene ad un insieme perché appunto sfugge alla definizione perentoria del chi è una volta per sempre. Questo è uno dei rischi che una visione distorta dell’integrazione può ottenere: quando cioè il soggetto risulta talmente integrato (ovvero incastrato nel sistema di scatole cinesi che gli è stato costruito attorno), da risultare alla fine disintegrato perché il centro di interesse non è più lui ma il meccanismo integrativo che lo circonda.
4. In tal senso il primo passaggio dovrebbe proprio consistere in una attenta e documentata “narrazione” di “che cosa” quel bambino fa negli ambienti in cui vive. E questo verbo fare deve proprio guidare il confronto e la raccolta di informazioni che, in parte, ci daranno delle ricorrenze, ma in parte ci descriveranno delle dis-correnze.
Le ricorrenze e le discorrenze hanno la proprietà interessante di venire narrate da soggetti diversi: genitori, educatori, insegnanti, compagni, oltre che dal soggetto stesso.
Le narrazioni disvelano i punti di vista, le dominanze narrative, i desideri espliciti ed impliciti, le attese, gli aspetti negativi, i vissuti. Dunque fanno entrare in scena i soggetti con i loro ruoli e i loro copioni. Ma nello stesso tempo ci illuminano scene dalle quali siamo esclusi perché non vi apparteniamo, ma vi appartiene il soggetto di riferimento.
E quei contesti sono i suoi vissuti, sono i luoghi in cui si muove, agisce, pensa, decide,…
La raccolta di narrazioni (non di informazioni), si correla ovviamente alla conoscenza del meccanismo della comunicazione.
La circolarità del processo comunicativo non deve essere interpretata come un cerchio definitivo e definitorio, ma come una spirale il cui movimento procede per continui ampliamenti, ma allo stesso tempo per riconosciuta storia pregressa inclusa nell’ora, nel qui.
Segnatamente il passaggio del silenzio rappresenta il momento di più difficile autoeducazione perché rappresenta la capacità, via via sempre più affinata, di sapersi svuotare dalle proprie convinzioni, previsioni, pregiudizi, al fine di fare davvero spazio a ciò che si mostra, si annuncia, viene detto e quindi deve essere accolto.
Elementi continuativi ed elementi discontinui segnano e tratteggiano le diversità indotte e dedotte dalla varianza dei contesti, delle persone in scena e delle relazioni in atto. Per chi si occupa di educazione tali informazioni permettono di avvicinarsi a non poche conoscenze indirette del cosa faccia quel bambino, quando, ad esempio, è a casa, quando va in vacanza, quando è nelle case di amici, quando gioca da solo, quando gioca con altri, quando è in palestra, o in piscina e via dicendo. Ogni situazione è il risultato di relazioni, di occasioni comunicative e comportamentali. Di agiti diretti o indiretti. Le narrazioni così raccolte costruiscono in parte quadri rappresentativi omogenei che confermano atteggiamenti, reazioni, stereotipie, rituali, strategie di risoluzione di impacci o di difficoltà. Ma in parte tratteggiano e indicano novità comportamentali, diversità di reazioni, personalizzazione di sequenze operative, novità comunicative.
La visione binoculare ottenuta per rispetto di tutte le narrazioni, ci consente di limitare o comunque correggere il rischio del pregiudizio per cui, individuata la patologia, ci si attende in forma analitica ed elencativa tutte le caratteristiche che quella patologia indica. In realtà, una volta diagnosticato l’aspetto clinico, quell’evento clinico va poi integrato con i vissuti storico-personali-sociali-culturali che quel soggetto ha intrattenuto nella sua specifica realtà di appartenenza. Quell’individuo non è il risultato della definizione internazionale a cui si associa, o all’elencazione riportata nella sua sitografia di riferimento, ma è molto di più.
Definire un soggetto come ritardato non è ancora niente rispetto al dire che si sta parlando di Mario che è ritardato. Che è il Mario che abita a…., che vive a…., che conosce…, ….
Questa riflessione è fondamentale se si vuole evitare il rischio di una patologia partecipativa, secondo la quale il mio modo di fare nei confronti di quel bambino diventa una sorta di adesione preconfezionata di tutte le risposte che prevedo, comunque, di dover possedere aprioristicamente, ancor prima che la relazione si muova in forma appunto di relazione. Così la patologia riceve solo un’azione di congelamento dal suo essere detta, senza legittimarsi al dirsi, ovvero all’evolvere i suoi modi, i suoi fare.
Come pare evidente il punto di vista educativo e pedagogico, è relativo all’ordine del fare che guida sia la ricerca che l’intervento. Adesso sì che il fare è davvero fare: cioè produrre, creare, dare vita.
5. Nell’odierna letteratura affermare che vanno individuati “Bisogni Educativi Specifici” (BES), significa proprio uscire dal preconfezionato per indirizzarsi ad un progetto educativo costantemente rivalutato, riformulato e riprogettato. Certamente l’approccio multidisciplinare risulta quello più ad alta possibilità di risposta e di soddisfazione per il bambino, perché garantisce l’opportunità di investire di senso un più articolato numero di relazioni e di comunicazioni, ottenendo, nel contempo, una più alta possibilità di raggiungere la persona in virtù di una più ampia possibilità di scelta.
Davanti a bambini con ritardo mentale siamo spesso misurati e confrontati con comportamenti che nella maggior parte dei casi sono da ricondurre ad una sorta di intolleranza e incomprensione alla realtà circostante. Una realtà fatta di convenzioni già definite e definitorie, di norme già stabilite e socializzate, di applicazioni operative già standardizzate. Nella realtà il bambino con ritardo mentale ci misura con una scala di misurazione quasi sempre non aderente a quella convenzionale posseduta appunto per convenzione.
Nella maggior parte dei casi l’intervento educativo si attua nell’ottica di una adesione il più possibile corrispondente alle manifestazioni comportamentali ritenute corrette e quindi scelte e applicate per effetto di esercizio ripetuto nella speranza che vengano acquisite e strutturate. In tal senso il concetto di integrazione appare falsato perché non è il risultato vicendevole di un cambiamento; è la disintegrazione del comportamento dell’uno a favore del comportamento dell’altro in virtù di una normalizzazione che è assunta come regola assoluta e indiscutibile. L’applicazione di schemi a carattere comportamentale non vanno ritenuti come esclusivi o comunque escludenti altre possibilità e altre procedure. Il rischio può essere quello di rintracciare schemi, modelli, procedure ancora una volta elencativi, ancora una volta predefiniti, quindi presenti ancor prima che esista nel mio orizzonte relazionale il soggetto.
6. All’interno delle case, delle classi, degli ambienti dichiarati educativi, genitori, insegnanti ed educatori in senso lato, riportano dettagliate descrizioni di comportamenti problematici che di conseguenza richiedono aiuto specifico e indicazioni educative che tentino di dare risposte a tutti i soggetti contenuti in quegli ambienti.
La rete comunicativa contenuta in un contesto è molto più ampia di quella ritenuta presente nel semplice elenco delle persone presenti. La comunicazione ha un livello esplicito e un livello implicito i cui movimenti non sono simultaneamente attivi e percepibili. Noi sappiamo che ad ogni atto comunicativo dichiarativo (visibile, udibile, appercepibile), ne corrisponde uno altrettanto significativo, anche se non direttamente dichiarativo. Quando ad esempio si pone la domanda se è meglio che il bambino stia in classe o fuori dalla classe con l’insegnante di sostegno (domanda molto delicata nella fase progettuale), non si è probabilmente tenuto conto dell’intreccio tra esplicito ed implicito, tra detto e non detto, tra visibile e invisibile; non si è tenuto conto che le relazioni (orizzontali, verticali, trasversali), nel loro muoversi comunicano e dunque agiscono, ottenendo effetti imprevisti e imprevedibili sia sul piano degli apprendimenti cognitivi che comportamentali.
Il tentativo iniziale di ogni percorso di crescita inserito nei contesti sociali risulta essere soprattutto di contenimento e di difesa. Questi atteggiamenti sono largamente indotti dal bisogno di garantire all’organizzazione istituzionale la sua funzione e i suoi insiemi ordinati.
Possiamo annotare come narrazioni che si ripetono, quando viene descritto il bambino con ritardo cognitivo a scuola, un elenco tendenzialmente scontato che si caratterizza per tratteggio ritenuto negativo:
· i rituali
· le fobie
· la dissociazioni tra linguaggio e pensiero
· fenomeni di ipersensibilità (ad esempio l’iperacusia)
· gravi difficoltà nella gestione dell’imprevisto
· incapacità nel tollerare le frustrazioni
· difficoltà ad adeguarsi ad alcune richieste
· difficoltà nel comprendere spiegazioni
· difficoltà nel gestire la risoluzione di un compito o di un esercizio
· difficoltà o incapacità di tollerare i cambiamenti anche semplici nell’arco di una giornata o di un evento
· disarmonia evidente nelle autonomie personali (es. uso dei soldi o uso dell’orologio)
· discrasia tra utilizzo del linguaggio e riconoscimento del contenuto del linguaggio stesso
· discrasia tra talune capacità strumentali (ad esempio il calcolo matematico), e l’applicazione di queste capacità in competenze transferenziali (ad es. calcolare la spesa)
· difficoltà nel riconoscere l’altro e gli altri come partners, come coetanei, come amici,…
· improvvisi interventi verbali incoerenti con la situazione in atto
· imprevedibili scoppi di grida
· disorganizzazione spaziale e temporale
· difficoltà nel trattenere informazioni apparentemente semplici
· tendenza alla provocazione apparentemente immotivata
· …
All’insieme di questi comportamenti corrisponde in maniera interrelazionale una serie altrettanto significativa di risposte socio-emotive quali
· La simpatia
· Il fastidio
· L’accudimento
· Ipervalutazione
· Ipovalutazione
· La prossimità
· La distanza
· L’attesa
· La disattesa
· La fiducia
· La sfiducia
· L’allerta
· La prevenzione
· La difesa
· La limitazione
· L’ipernormatività
· …..
Domina nell’insieme una netta ambivalenza che dichiara molto spesso come i contesti familiare e sociale siano incapaci di raggiungere una mediazione relazionale normata, cioè equilibrata, cioè corrispondente ai bisogni reciproci. Soprattutto domina il bisogno di contenere, di dominare. Di trovare soluzioni regolate dall’esterno, eteronome. Mentre sappiamo che la regolazione è tale solo se rientra nel comportamento autonomo, personale e intenzionale.
Le domande più frequenti in ordine all’intervento educativo, sono relative al come contenere il bambino, come evitare che si manifestino con impetuosità queste stranezze, come risolvere questi disturbi disturbanti.
C’è ed è palpabile un divario, una distanza. Cioè uno spazio innominabile, ma pienamente avvertito. Ed è avvertito proprio perché non è nominato.
E’ uno spazio che va riempito, colmato. O meglio va reso attivo. All’inizio questo spazio è quello della frustrazione vicendevole che se non agito porta all’impotenza. Questo spazio va reso motivante, va agito finalizzandolo all’autonomia.
In realtà nessuna possibilità di contenimento risulta possibile e costruibile, se non modificando il contenitore all’interno del quale il soggetto e i soggetti, si muovono, agiscono e fanno. Contenitore e contenuto non posso essere scissi nel momento dell’intervento, poiché rappresentano i due punti ineludibili della relazione. Non si può richiedere il cambiamento di un bambino senza contemporaneamente produrre cambiamento nei soggetti e nei contesti in cui quel bambino vive.
Dunque ancora una volta torniamo al bisogno di fare e non di essere; il cambiamento è un atto che si compie in ordine al fare e non all’essere. L’essere risulta irraggiungibile e invisibile alla nostra osservazione e al nostro agito; noi registriamo fatti; dunque solo quelli possiamo modificare.
Se noi prendiamo ognuno dei descrittori poco sopra elencati e lo immaginiamo narrato da un insegnante o educatore o genitore, ci colpiscono tre fattori:
· che la risoluzione di quei comportamenti non avviene in maniera spontanea e dunque non possiamo semplicemente attendere che il comportamento passi per pura successione temporale
· che appare urgente il bisogno di uno spostamento dal lì, dove l’evento problema accade, ad un là dove l’evento problema può trovare o trova una sua pacificazione o modificazione, ma quel “là” deve essere progettato
· che vi è un luogo, non ancora esperito, che può rappresentare uno spazio altro rispetto a quelli già conosciuti. Questo luogo è appunto quello che deve essere immaginato, progettato, costruito insieme.
7. Proviamo allora ad indicare riferimenti concreti relativi all’apprendimento. Tali riferimenti non si discostano da ciò che viene fatto con tutti i bambini.
I processi di apprendimento avvengono sulla base di una rete di costruzioni della realtà che è uguale per tutti.
Ognuno di noi impara ad ordinare il mondo in cui vive attraverso degli organizzatori che durante la crescita si fanno sempre più sofisticati e condivisi.
Questi meccanismi sono:
L’uguaglianza: il cui criterio organizzativo consiste nel saper individuare l’uguaglianza
Lo smistamento: il cui criterio organizzativo consiste nel saper individuare la diversità
Lo smistamento: il cui criterio organizzativo consiste nel saper applicare simultaneamente l’uguaglianza e la diversità
La seriazione: il cui criterio organizzativo consiste nel saper individuare e applicare l’intensità
La classificazione: il cui criterio consiste nel saper applicare tutti i criteri precedentemente indicati
L’ordinamento: il cui criterio si basa sull’ordine spazio-temporale dell’io rispetto al mondo.
Sull’insieme di questi ordinatori si associano, o meglio si reggono, le discipline, i saperi, le reti epistemologiche che originano le conoscenze condivise, quelle convenzionali.
Va da sé che ogni individuo si avvicina a questi processi in maniera differente e differenziata.
Lo spazio esistente tra un qualsiasi soggetto e il mondo diventa il luogo in cui appunto si applica e si progetta la possibilità che il rapporto nasca, prenda vita e si organizzi. Qui e solo qui si costruiscono i modi, le strategie, le relazioni che diventano quell’in più che negli ordinatori non compare. E le relazioni che emergono nei contesti dell’apprendimento sono tali in virtù del fatto che l’apprendimento ha sempre un valore sociale: si apprende per comunicare e si apprende comunicando (da qui l’importanza delle intelligenze multiple). Esperire l’efficacia dell’apprendimento corrisponde al comprendere a cosa serve, trovarne il senso. Un apprendimento che non dà vita ad una comunicazione diventa sclerotizzato e porta ad una chiusura il cui esito è per un verso il disinteresse per altro verso l’opposizione all’apprendimento.
Ciò che conduce l’uomo al mondo e il mondo all’uomo non può essere pensato come qualcosa di assolutamente lineare, come qualcosa di univoco. Non vi è una via all’apprendere, ce ne sono tante ma devono essere individuate, pensate, costruite, agite, ripensate, rivalutate,…
Da qui nasce anche il bisogno di saper progettare il setting di intervento inteso come quel luogo in cui
· ci si riconosce
· ci si muove con autonomia
· ci condividiamo norme co- costruite
· ci riconosciamo finalità esplicitate
· lo spazio ha significato
· il tempo ha significato
Nulla in educazione è casuale, ogni atto è scelto, anche quello abbandonato a se stesso.
8. Adesso una breve serie di esemplificazioni ci chiariscono e documentano il piano del pensiero sin qui esposto.
Per molti bambini con ritardo cognitivo l’avvicinamento o la prossimità alla norma convenzionale deve prendere avvio da una mediazione che si muova dal loro stato di realtà, dal loro fare. A questo fare si devono associare due semplici regole: la semplicità della proposta e la sua ripetibilità autonoma. Senza questi due orientatori l’azione diventa faticosa e spesso fallimentare.
· Se mi trovo nella situazione di un bambino con ritardo mentale, quasi sempre sono misurato col suo bisogno di mettere in atto rituali estenuanti o procedure risolutive nelle quali io non mi ritrovo. Ad esempio quello fissativo del dopo, e dopo?, che viene riproposto ad un ritmo meccanicistico. Prendere questo fatto ed includerlo nella realtà della classe, dell’ambito domestico ha significato (per un bambino reale) produrre, su un semplice modello a parete, un palazzo in verticale con delle finestre a cui erano aggiunte delle tende. Le finestre del tempo che regolano i momenti della giornata secondo il progressivo aprirsi di tende che segnano visivamente, dunque concretamente, il succedersi tra ciò che ora sto facendo rispetto al dopo che ancora deve avvenire e dunque deve ancora aprirsi. Questo semplice arredo visivo posto nell’aula e in casa ha significato una più autonoma gestione dell’ansia del dopo da parte di quel bambino, ma ha fornito tutti gli alunni di un sistema di riferimento a cui ognuno comunque poteva accedere elidendo, comunque limitando, l’eccezionalità dell’intervento riconducendola ad una opportunità. L’inclusione è la possibilità di esperire una molteplicità di codici e dunque di comunicazioni. Tale esperienza è l’esperienza della diversità di ciascuno fatta appunto passare da un evento ritenuto eccezionale (quindi diviso e separato), ad un evento reso accessibile e vivibile da tutti (quindi intero e unito).
Ma così potremmo dire delle fobie o delle paure degli eventi improvvisi che alcuni bambini con ritardo evidenziano, anche con comportamenti eclatanti e preoccupanti per adulti e compagni.
· Avere semplicemente costruito dei piccoli fantasmi di cartoncino che si possono estrarre quando l’evento improvviso sopraggiunge, dando al bambino la possibilità di distruggere quel fantasma, ha significato legittimare la paura e il timore fisicizzandoli e agendoli direttamente.
· Ripensare il registro delle stringhe-frasi dell’insegnante durante le spiegazioni è stato ad esempio il bisogno di un bambino che non era in grado di reggere emotivamente e cognitivamente una articolata argomentazione proposta con un eccessivo numero di subordinate. Stabilire che era necessario un linguaggio paratattico e non ipotattico ha significato abbassare i comportamenti reattivi di tipo oppositivo, ma è servito anche ad altri alunni per meglio comprendere i messaggi disciplinari.
· Facilitare l’apprendimento di schemi operativi autonomi tramite dei segnalatori geometrici ha consentito ad un bambino di allontanarsi dalla dipendenza dall’insegnante e dalla mamma guadagnando il suo saper fare da solo.
· Bambini che non sanno procedere secondo un piano di lavoro autonomo rispetto a compiti, consegne o esercizi, possono essere facilitati o meglio resi capaci, con semplici accorgimenti che gli consentano di avere presso sé una linea di percorrenza orizzontale o verticale che gli mostri i vari passaggi con dei simboli convenzionali. Ad esempio per un bambino può funzionare l’idea di essere su una Ferrari e che ci sia una pista in cui vi è lo start e l’arrivo e che lungo il percorso vi siano dei “pit stop”.
E così potremmo continuare molto a lungo nelle esemplificazioni.
Ma qui ciò che ci interessa è il fatto che mediare in ordine alle didattiche, ai metodi e alle strategie corrisponde all’allontanarsi dal rischio pericoloso di atteggiamenti ambivalenti che in parte nascondono le difficoltà attraverso un buonismo irrisolvente, oppure con una presa in carico, la cui unica modalità operativa consiste nella correzione comportamentale per effetto di esercizio coercitivo.
In realtà la questione del metodo non può essere universalizzata; essa è la risposta singola (dunque da costruire), di quel bambino, di quella famiglia, di quella classe, di quel contesto.
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