Rita Bartolini
Nel pensiero educativo il rapporto con la verità rinvia al tema in grado di sviluppare la relazione implicita al rapporto stesso.
In maniera significativa tale rapporto si è particolarmente evidenziato nel momento in cui all’interno del contesto scolastico si è affermato il concetto di istruzione.
Il suo ingresso è stato inteso in modo positivo, in quanto legato alla “scoperta” dell’importanza delle scienze per il sistema scolastico del nostro Paese.
Purtroppo questa importanza è stata spesso intesa come qualcosa di unico e di eccezionale, enfatizzando ciò che le scienze proprio non chiedono. Fare scienza non è uno stato di eccezione, è il modo stesso con il quale ci si dovrebbe rapportare al mondo tramite il naturale esercizio di una conoscenza metodologicamente impostata.
Purtroppo l’ingresso delle scienze nella nostra cultura scolastica si è realizzata con modalità divulgative che hanno trovato nel dire retorico il loro stile comunicativo dominante.
In questo modo, dalla fine degli anni settanta, l’idea di istruire, strettamente legata alle discipline scientifiche, si è esaurita in una deriva ideologica, secondo la quale le “verità scientifiche” intese come regole, norme, risultati, hanno avuto il sopravvento sulle procedure di costruzione dei saperi stessi. Contro il grande insegnamento cartesiano i risultati hanno cancellato o messo ai margini la costruzione metodica, al cui interno si colloca addirittura la possibilità di un “dubbio iperbolico”.
Procedure che nella realtà dovrebbero viceversa rappresentare il carattere forte e specifico di ogni singola scienza.
Stabilito un ipotetico fine da raggiungere, l’investimento teorico è operato necessariamente sul percorso di ricerca in cui: metodo, strumenti, confronto, riflessione, documentazione e valutazione diventano gli elementi di sostegno alla ricerca stessa. Infatti anche l’esito fallimentare, in scienze, ha valore scientifico, in quanto tutto il sistema e tutti i singoli passaggi, hanno responsabilità e risultano degni di analisi correttiva. Ma la grande stagione dell’istruzione, dimenticando la costruzione metodologica si è chiusa nell’ideologia della “verità” e l’istruzione è stata così intesa e tesa nella direzione dell’acquisizione di conoscenze ritenute necessarie e assolute (nei fatti l’un termine rinvia all’altro).
Così l’assoluto è stato pensato come ciò che è necessariamente il vero e per ciò stesso la pratica conoscitiva dovrebbe scorrere in quella direzione. Ciò detto pare evidente che per converso il relativo, o ciò che è ritenuto tale, non può che essere pensato come l’erroneo, ciò da cui dunque il pensiero deve essere distratto. Apparentemente dunque la verità e l’errore appaiono contraddirsi; in realtà la relazione tra loro non è la “contraddizione”, che riguarda antinomicamente il rapporto vero falso per cui dato l’uno non può contemporaneamente essere presente l’altro, ma il “contrario”. Lo stare in maniera contraria non implica l’annullamento, di volta in volta, dell’uno o dell’altro. Se così fosse l’uomo non potrebbe mai esperire la presa di coscienza dei propri limiti, perché sarebbe necessariamente situato in modo definitivo e inappellabile nell’errore introducendo inevitabilmente la situazione della colpa come sentimento che rende impotenti e soprattutto impossibilitati al superamento di un limite avvertito come assoluto.
La verità e la falsità stanno dunque come ciò che da sempre sta e che per ciò stesso non necessita della relazione con l’uomo per dirsi tali. Il loro essere assoluti non è aggettivato dalla nostra relazione con loro; essi sono tali, e basta. Nessuno può essere “possessore” di assoluti; gli assoluti, come tali, non hanno possessori, perché se ne avessero necessità non sarebbero più assoluti.
Vantare allora il possesso di una verità a cosa corrisponde? A nient’altro che alla falsità.
Quindi chi si pensa possessore di quell’assolutezza che è la verità è già situato in una condizione di falsità.
Su cosa sia la verità si posiziona proprio la domanda che la scuola, se vuole essere il luogo dell’attenzione allo studio, dell’amore allo studio, deve costantemente porre a se stessa.
E’ in questo senso che la scuola può consolidare (o ritrovare?), il suo senso; quello della ricerca della verità non come possesso della verità, ma proprio come costante disappartenenza e allontanamento da ciò che ognuno può ritenere di possedere come vero.
Il rischio educativo della scuola non si situa nel non cercare la verità, ma nel ritenere di possederne una. Proprio per questo una scuola organizzata sulla autoreferenzialità della verità è falsa, generando così solo ideologia e retorica. A scuola non si deve stabilire come stanno le cose una volta per tutte, non si inscenano messe in prova di verifiche accertanti il vero a discapito dell’erroneo, non si producono inutili selezioni tra quanto è certificato come vero e quanto è certificato come erroneo
Questo non è “fare scuola”.
Scuola è occasione di crescita, di costruzione di una coscienza aperta all’intersoggettività, alla multiculturalità, al conflitto cognitivo.
Scuola come luogo costante di decostruzione e ricostruzione, laboratorio aperto di una
pratica educativa operosa che costruisca il comportamento del cercare, del discutere, del pensare da solo e insieme ad altri.
Ogni soggetto attivo nella scuola, ovvero l’insegnante quanto lo studente, è parte di questo movimento di ricerca.
Ritenere che i sistemi disciplinari possano e debbano venire insegnati in modo vero, ovvero assoluto e unico, è dunque segno e indicatore di un “fare scuola” dogmatico, in cui l’asse dell’insegnamento esclude ogni possibilità attiva dell’apprendimento da parte dello studente. Ma ancora di più, implica un atteggiamento falso, quindi ingannatore, quindi menzognero, quindi immorale.
Ritenere che per imparare vi siano solo alcune strategie ritenute, per abitudine o per tradizione, le uniche vere, è falso, dunque ingannatore, dunque immorale.
Valutare sulla base di indicatori stabiliti a priori o una volta per sempre è falso, dunque un inganno e per ciò stesso immorale.
Pensare che lo studente “conosca” meno di me che sono l’insegnante è un principio falso, ingannevole e immorale. Soprattutto è distante dall’avvicinamento alle scienze che hanno da sempre la prerogativa di mostrarsi secondo costanti progressi, mai definitivi. Conoscere “di più” non significa collocarsi “più” distanti da chi ancora, in ambito scolastico, apprende, anzi significa proprio l’esatto contrario, ovvero essere nella posizione ideale per “dare di più”. Ed è nel momento del dare che l’educatore apprende, perché avverte, intuisce, osserva non solo gli interessi che gli alunni progressivamente maturano, ma anche gli errori che commettono e con i quali si confrontano non per accumulare inutili sensi di colpa o di impotenza, ma per aprirsi a possibilità diverse da quelle fin lì percorse, assumendo così nuove scelte e decisioni, ovvero responsabilità. Dunque l’errore è nella logica dell’apprendere, è una variabile significativa, soprattutto è possibile che sia.
Credere che l’errore sia da interpretare sempre come annullamento del pensiero che lo ha costruito, perché l’unico pensiero ritenuto vero è quello che porta ad un risultato positivo è falso, perché ogni pensare è percorrere un tragitto di ricerca, di intenzionalità dimostrativa, conoscitiva. Quindi strappare la pagina, crociare con il tratto rosso o con una pretesa cancellazione corrisponde ad un inutile tentativo di annullamento di uno stato esistenziale legato ai limiti stessi dell’uomo, alla sua finitudine e quindi alla sua perenne ricerca di una verità in sé e per sé che sempre lo trascende, ma che proprio per questo lo costituisce come soggetto pensante e come tale costitutivamente aperto all’errore. La verità quindi, come ricerca di un ideale regolativo, ma mai costitutiva di una conoscenza assoluta.
Dunque nella pratica educativa correggere non è sanzionare.
Nella pratica educativa la correzione è atto vicendevole, perché l’incontro con l’errore si compie sia dalla parte di chi educa che dalla parte di chi è educato.
Quindi la correzione è davvero atto reciproco in cui l’insegnante e lo studente analizzano l’evento, partendo dal risultato e ripercorrendo le procedure che hanno condotto all’esito, ne individuano i perché e le correlate risposte. Da questo esercizio viene l’abitudine alla riflessione, all’analisi critica, alla responsabilità della scelta e alla responsabilità del cambiamento quando ciò è necessario. Darsi motivo del perché “le cose” hanno esiti positivi o negativi corrisponde al dar senso alla propria esistenza, trovare la direzione per la ricerca successiva. Ma significa anche abbandonare progressivamente il bisogno di possedere verità per indirizzarsi verso un costante stile di ricerca e di azione.
Se nella pratica educativa l’errore non fosse presente, la relazione tra insegnante e studente perderebbe la propria essenza che consiste nell’individuare i limiti e cercare di superarli, per intravederne altri.
Nel procedere, accanto all’insegnante e allo studente c’è sempre la verità, ma appunto è accanto e non è già “appresa”.
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