Come facilitare la «conversazione» con il mondo ad un bambino sordo con impianto cocleare.
Rita Bartolini
Premessa
E’ vero che anche il linguaggio delle mani
ha lo stesso carattere: una persona
vede se stessa usare gli stessi gesti che usano i sordi. Tali gesti influenzano
la persona nello stesso modo in cui influenzano gli altri.
Naturalmente, la stessa cosa è vera per ogni genere di scrittura.
Tuttavia tutti questi simboli sono stati elaborati
sulla base del gesto vocale
che è l’unico a influenzare l’individuo nello stesso
modo in cui influenzano gli altri.
Gorge H. Mead
L’ampia e articolata documentazione, nonché la riflessione relativa alla riabilitazione del bambino sordo con impianto cocleare, ci portano ad affrontare il tema delle relazioni con il mondo, relazioni intese sia nella comunicazione con altri soggetti che nella comunicazione con gli oggetti.
La presente articolazione sviluppa il tema pedagogico, poiché l’argomento della comunicazione aderisce al compito specifico di un qualsiasi atto educativo.
Prendiamo dunque avvio da una riflessione che riguarda complessivamente la dimensione umana: l’evento della sordità produce nel soggetto interessato, e in tutti i soggetti a lui vicini, uno stato di spaesamento prodotto dall’avvertirsi come privi di “parole”, cioè di quell’insieme di “strumenti” che consente di aprire se stessi e di aprirsi agli altri.
Nel nostro caratterizzarci come uomini, le parole rappresentano quell’insieme di oggetti con il quale, nella nostra cultura, possiamo nominare, organizzare e ordinare il mondo.
Anzitutto il gesto vocale ha una spontaneità che lo avvicina al gesto visivo. Anche la voce, come la visione, esplode a partire da sé. E la visione, sappiamo, rimbalza l’invasione colorata del mondo in una prospettiva spontanea che scandisce le distanze visive del mondo circostante, le quali sono appunto rimbalzi prospettici. La voce però fa ancora di più. Essa non si limita a ordinare l’udibile che proviene; unica fra tutti i gesti, la voce produce fenomeni che prima non esistevano. Di fatto li porta nel mondo. La vista, vedendo, non può produrre immagini; il tatto, toccando, non può produrre cose. L’una e l’altro possono modificare l’esistente che proviene, ma non possono creare fenomeni ex novo. La voce, invece, rompe il silenzio. Là dove il mondo era muto, ecco che si parla: fenomeno «inaudito».[1]
Il bambino sordo “ammutolisce” il mondo, lo mette in crisi in quanto mondo, perché lo rende innominabile.
L’atto educativo, nel suo muoversi, assumendo decisioni e offrendo proposte, dovrebbe proprio andare nella direzione di una restituzione della «parola» e della «conversazione», ovvero dovrebbe restituire energia ad azioni intenzionate come raccontare, ascoltare, spiegare, descrivere, affermare, negare, acconsentire, vietare, interpretare, qualificare, rappresentare, giustificare, motivare, interpellare, interrogare. E’ in questo senso che le nostre riflessioni tendono a sottolineare l’importanza della costruzione del «gesto vocale» come la più importante occasione di costruzione del luogo dell’io.
La voce è di per sé un fenomeno oggettivo, qualcosa di manifesto per tutti: un evento pubblico e intersoggettivo. E’ per questo che la parola ha una sua propria imponenza. Lo sguardo può avere una intensità emotiva che nessuna parola sarà mai in grado di esprimere; ma la voce ha una ingombrante e decisiva oggettività. Nessuno sguardo potrà mai essere così compromettente come la parola detta. La voce infatti fa apparire l’inaudito, pone nel mondo «cose» che prima non c’erano. Forse i loro sguardi parlavano d’amore; ma fu solo quando dissero «ti amo» che la cosa accadde, venne al mondo in modo irrevocabile, ed essi stessi ne divennero consapevoli. La parola, cioè, rende i due pubblicamente consapevoli di ciò che essi sentono forse oscuramente, ma ancora non sanno. [2]
Il breve lavoro qui di seguito sviluppato, tenterà di recuperare, nella direzione precedentemente indicata, taluni dei concetti fondamentali riguardanti il versante della riabilitazione rispetto al discorso pedagogico.
Attività come quella dello “scenario”; l’utilizzo dei materiali secondo la modalità del “melange”; le linee di condotta che vanno nella direzione della divergenza e della transferenzialità; l’individuazione e il potenziamento delle risorse comunicative; l’organizzazione del setting d’intervento secondo procedure attentive e funzionali alla memoria di lavoro.
Questi alcuni dei temi trattati in maniera correlata all’impegno richiesto anche alla famiglia.
Nell’ultima parte entreremo nel merito dell’ingresso del bambino sordo con impianto cocleare, nelle realtà scolastiche di appartenenza per sottolineare i punti di forza e le fragilità ricorrenti.
Lungo il percorso tematico si preciseranno i compiti e i ruoli delle figure via via presenti e attive nel cammino di crescita del bambino.
[1]Cfr. C. Sini, Gli abiti, le pratiche, i saperi (1996), Milano, Jaca Book, 2003, p. 27. [2]Ibidem, p. 33.
1. LA VISIONE PEDAGOGICA
1. 1 Lo sfondo concettuale
L’intervento sulla sordità ottenuto mediante l’impianto cocleare segna il passaggio da una situazione definibile come stato di natura ad una situazione definibile come stato di cultura.
L’impianto cocleare, mediante tutti i suoi aspetti: medico – chirurgico – teconologico – riabilitativo, propone una filosofia di pensiero relativa all’uomo, non di tipo compensativo, ma di tipo risolutivo.
Ciò che naturalmente appare mancante non è affrontato prendendo le mosse da una esclusiva accettazione dello stato di cose a cui aggiungere compensazioni comunicative, come i segni o i gesti in grado di “sostituire” l’unica convenzione comunicativa riconosciuta e sottesa, cioè il linguaggio verbale. Queste scelte, storicamente significative e importanti assumevano l’anomalia naturale come dato di fatto non diversamente affrontabile, se non per compensazione.
L’impianto cocleare apporta alla anomalia naturale sia il riconoscimento dello stato di cose, ovvero la presenza della sordità, sia il fatto che la soluzione del dato deve risolvere ciò che la natura non ha potuto esprimere o portare a compimento ripristinando le sue caratteristiche e dunque le sue funzioni.
L’evento culturale deve esprimere il modo con il quale l’uomo affronta la sua condizione di esistere e di affrontare le proposte della natura non con passiva rassegnazione o esclusiva individuazione di alternative parallele, ma con un intervento diretto sulla natura stessa che non può, in quanto priva di razionalità, pretendere di “avere ragione” dell’uomo.
Le riflessioni sin qui espresse ci direzionano allora verso il significato espresso nell’azione definita dal verbo “educare”.
Educare è proprio quell’insieme di scelte, situazioni, intenzioni e azioni che consentono di passare dal sostantivo «uomo», che rappresenta la sua natura, all’aggettivo «umano» che rappresenta la sua cultura.
Affinché questo passaggio avvenga è necessario collocarlo in un tempo di sviluppo che, primariamente, si esprime nell’infanzia.
Il tempo è una variabile essenziale e determinante per l’azione pedagogica, nello specifico per la situazione correlata all’intervento cocleare, perché consente di provvedere il più presto possibile al passaggio da una condizione di natura ad una di cultura.
Potremmo definire questo percorso come il passaggio dall’udire al sentire.
Se con l’udire, mediante l’intervento chirurgico, si ottiene il punto di partenza essenziale per la percezione sonora del mondo, con l’educazione si costruisce il sentire, cioè il livello appercettivo, quello che permette di riconoscere i suoni come appartenenti ad una realtà piuttosto che ad un’altra secondo una rete sempre più complessa, articolata e sofisticata di relazioni che, a partire dalla semplice e “concreta” operazione logica della uguaglianza o identità, potranno, nel tempo, giungere a processi logico – cognitivi come quelli “astratti” della induzione, della deduzione, della classificazione, …
Il viaggio, se così lo vogliamo immaginare è proprio questo, un passare, attraverso stazioni intermedie, dal concreto all’astratto, dall’uno al molteplice, dal segno al significato, dall’io al tu, dal proprio al condiviso, dal grido al linguaggio.
E’ dunque un viaggio verso la comunicazione, verso un rapporto con l’altro che passando dalla conoscenza degli oggetti attraverso la manipolazione, consente ad ogni bambino di intuire prima e riconoscere dopo, che l’altro, il fuori da sé, è quell’altro con cui si può dialogare per raccontare il mondo, per descriverlo, per scambiarlo.
1. 2 Educare alla “conversazione”
Stabilita la meta del nostro viaggio, cioè comprendere e comunicare per scambiarsi il mondo, diventa necessitante stabilire chi sono i partecipanti a questo evento e quali strumenti siano necessari come bagaglio.
Probabilmente la prima interessante riflessione che ci troviamo a fare consiste nel fatto che la conquista della parola, intesa come complesso di suoni articolati che esprime un preciso e condiviso significato, sta quasi alla fine dell’itinerario e non all’inizio. Come dire che apprendere a parlare è, nell’ottica pedagogica qui espressa, una tensione e una intenzione sulle quali l’investimento e l’impegno educativo trovano interesse e senso, solo dopo avere investito sui legami emozionali e rappresentativi di base, in primo luogo quello materno.
Questa breve considerazione ci chiarisce il senso della richiesta schietta e immediata che viene rivolta ai genitori che aderiscono alle procedure connesse all’impianto cocleare: la mamma deve occuparsi interamente del bambino per un tempo consono al raggiungimento di un comportamento appercettivo sano, in cui il mondo dei suoni e del linguaggio assumono senso e significato sia emotivo che cognitivo. Assumono cioè un significato di appartenenza e non di estraneità.
Tenuto conto che per l’intervento di impianto cocleare il massimo del successo si ottiene entro i 24 mesi di vita, chiedere alla mamma di dedicarsi prioritariamente al suo bambino appare una richiesta sensata e coerente con l’età.
Nello specifico, la relazione educativa materna richiesta non riguarda compiti riabilitativi o allenamenti specifici, ma riguarda proprio l’insieme dei vissuti quotidiani da rendere costanti, abitudinari e comprensibili al bambino.
Non è ciò che fa la mamma al bambino che interessa, ma ciò che la mamma fa con il bambino. Ciò che viene richiesto è ad esempio, che la mamma parli con il bambino, non al bambino. Dove la differenza preposizionale indica con chiara evidenza che sin dall’inizio il rapporto è proposto nella forma della «conversazione», del dialogo, di una interpunzione comunicativa in cui progressivamente nello spazio tra mamma e bambino sono presenti:
o L’UDITO: inteso come percezione di suoni e rumori che provengono in modo costante e ripetuto da quelle stesse fonti e da quegli stessi luoghi ai quali si dirige anche lo sguardo e il volto della mamma e che per questo assumono senso, significato e appartenenza anche per il bambino;
o LA CONSAPEVOLEZZA: nel senso che quando ci sono certi suoni e certi rumori accadono regolarmente certi fatti e certi eventi espressi dalla mamma in forma di azioni, di espressioni del viso, di frasi ripetute che nel loro insieme possono essere anticipate con un comportamento di allerta e di attesa di eventi in parte conosciuti e in parte posseduti. Questa è la chiara dimostrazione che l’insieme sequenziale di quel singolo accadimento è riconosciuto e fissato nella memoria anche uditiva;
o L’ATTENZIONE: intesa come permanenza sempre più ampia e stabile su oggetti, espressa guardandoli e manipolandoli insieme alla mamma tramite le sue contemporanee narrazioni e descrizioni; oppure indirizzata sull’espressione del viso mentre la mamma parla col bambino; oppure durante le routine della pulizia, dell’alimentazione, della preparazione al sonno;
o L’ASCOLTO: così come la mamma riconosce le differenze comunicative del bambino sulla base di intonazioni, movimenti o smorfie, così il bambino comincia a riconoscere le diverse comunicazioni materne. Diversità espresse dalla stessa con canzoncine, con frasi di accompagnamento al gioco del bambino, con suoni onomatopeici connessi con i movimenti di oggetti o di personaggi dei giochi e dei giocattoli. A tutto ciò corrisponde quell’universo di suoni, rumori, primi universi linguistici che si correlano in maniera costante e rassicurante con il proprio mondo quotidiano di appartenenza al quale si dirige l’interesse e l’attenzione di qualsiasi bambino;
o LA COMPRENSIONE: quando il bambino collega i suoni pronunciati dalla mamma agli oggetti direzionando lo sguardo su di essi, oppure risponde alle domande della mamma toccando gli oggetti nominati, sorride alle proposte gradevoli per lui, come “Facciamo il bagnetto”, “Prendiamo l’orsetto”, …
o L’INTERAZIONE: quando comincia a rispondere con vocalizzi o altri tentativi verbali alle conte, alle richieste della mamma, ai complimenti. Già questa modalità è una conversazione a tutti gli effetti, poiché contiene le fasi le caratterizzanti la conversazione:
L’ascolto primario accompagnato dalla direzione dello sguardo e della testa verso chi parla;
La pausa cioè il distacco visivo dal volto perché è percepito il silenzio dell’altro;
La risposta con la relativa fuoriuscita di suoni e gorgheggi direzionati nuovamente verso il volto dell’altro;
L’attesa: nuova pausa di silenzio accompagnata però dall’aggancio visivo al volto dell’altro, in attesa di una risposta vocalica di rimando.
o LA PAROLA: intesa come articolazione di suoni il cui insieme esprime un significato condiviso e compreso simultaneamente da entrambi i soggetti comunicanti.
Questo ultimo passaggio risulta essere, dal contesto familiare e nello specifico dai genitori, l’evento più atteso, poiché rappresenta la testimonianza concreta che il bambino sente e comprende. Dove appunto il sentire va qui inteso come un fare «eco al mondo» e dunque di fatto essere al mondo.
Accadendo, il gesto vocale accade come un fenomeno per così dire «esterno», cioè proveniente da una circostanzialità; ma la risposta, in cui questo accadere accade, rimbalza su quello che diverrà o verrà saputo come l’emittente stesso di questo evento. C’è il grido e io sono contemporaneamente la fonte e l’oggetto di questo grido. Il gesto vocale è duplice, non è mai un semplice gesto: esso promana e proviene. Ed è così che si autooggettiva. Il gesto vocale si «rispecchia», si dà a vedere (o sentire) a se stesso. In base a questa sua virtù, il gesto vocale chiama nella presenza ancor prima del linguaggio. Non c’è alcuna intersoggettività linguistica e tuttavia il gesto vocale esercita già una funzione auto – oggettivante perché è autouditivo […] Il gesto vocale è un gesto che rende l’emittente oggetto del suo stesso evento gestuale. E’ così aperta la possibilità che l’emittente si riconosca e si sappia appunto come emittente. [1]
La costruzione del “gesto vocale” per l’importanza che riveste nella comunicazione simbolica cosciente a livello personale e sociale, rappresenta il consapevole e serio impegno sul quale l’educazione deve investire in termini di responsabilità e di risorse. Così risulta evidente che l’espressione “gesto vocale” è il risultato di una intenzionalità pedagogica che va assunta nel suo insieme, fin dall’inizio.
Questo insieme è ben espresso dal verbo “conversare” nel significato di “trovarsi con” esprimibile sia nella direzione del mondo, come insieme di oggetti, sia nella direzione della società, come insieme di individui. Educare al “gesto vocale” è dunque un educare a conversare con gli oggetti e con i soggetti.
Siamo così giunti all’individuazione del compito specifico dell’intervento pedagogico, ovvero al suo agire educativo affinché si strutturi, si organizzi e si stabilisca la conversazione.
La concezione del lavoro pedagogico […] consiste nell’intenderlo come una continua ricerca di significati e di ascolto delle emozioni. Si utilizza pertanto la concezione costruttivista, secondo la quale la comprensione della realtà, per il soggetto umano, si basa su una sua disposizione e capacità di attribuire senso agli eventi, attraverso la costruzione di rappresentazioni della realtà stessa. Tali rappresentazioni […] sono composte di significati e di emozioni, che in parte derivano dall’esperienza passata del soggetto e in parte si riconfigurano in modo specifico nel «qui e ora» dell’interazione.[2]
La costruzione di una biografia personale, intesa come l’insieme di immagini (pensieri, parole, comprensioni), avviene per un bambino attraverso la somma di tanti «qui e ora» sui quali gli adulti a lui prossimi hanno saputo investire in termini di tempo e di impegno. Il pedagogista diventa allora colui a cui, soprattutto i genitori, fanno riferimento per acquisire un insieme di sicurezze, di indicazioni e di procedure finalizzate all’esperienza comunicativa.
[1]Cfr. C. Sini, Gli abiti, le pratiche, i saperi, cit., pp. 30-31. [2] Cfr. M. G. Riva Il lavoro pedagogico, Milano, Guerini, 2004, p. 23. La prima comunicazione è mediata proprio dagli oggetti, cioè da quell’insieme di opportunità tattili, cinestesiche, sensopercettive, con le quali si scopre l’universo linguistico, categoriale, funzionale che gli oggetti hanno nel mondo di appartenenza:
- Nomi
- Posizioni
- Funzioni
- Relazioni
- Scopi
- Limiti
- Appartenenze
- Suoni
- Rumori
- Divieti
- Permessi
- […]
Tutte queste scoperte avvengono sia nella quotidianità degli atti che nelle modalità caratteristiche del gioco.
Preparare il momento del pasto del bambino predisponendo la scena in maniera rituale dal punto di vista degli oggetti, delle loro posizioni nello spazio, di alcuni suoni e rumori a loro abbinati, recitando una costruzione verbale tendenzialmente ripetuta e magari caratterizzata anche da passaggi melodiosi, permette simultaneamente il fluire verso il bambino di sicurezze emotive collegate all’accudimento e al rispetto dei suoi bisogni e il loro soddisfacimento, lo stesso è per il riconoscimento visivo, sonoro e sempre più comprensivo della situazione delle relazioni tra nomi e oggetti, tra frasi e azioni. Così anche giocare con giochi e giocattoli che hanno meccanismi ad effetto per cui tirando una cordicella esce un suono, schiacciando un pulsante si apre una finestrella, buttando per terra il biberon la mamma lo riprende e lo restituice, vedendo nascondere un oggetto dietro ad un cuscino poi lo si può ritirare fuori, sono tutte occasioni di scoperta e di esplorazione del come funziona il mondo e di come il mondo è “nominabile”.
Il meccanismo implicito è quello definibile di apprendimento – insegnamento per cui
[…] l’insegnamento in generale è ciò che permette alla nostra specie di collegare sul piano ontogenetico livelli biologici distinti trasformando, in tempi storici, i dati adattivi in apprendimenti individuali e collettivi. Questo è ciò che al fondo nessuna specie animale può fare perché irrimediabilmente condannata per questi stessi processi ai tempi biologici dell’ereditarietà filogenetica. […] Senza insegnamento il linguaggio simbolico sarebbe privo di senso oltreché privato della sua funzione primaria: parlerebbe di un mondo ogni giorno completamente nuovo e presupporrebbe che una comunità di parlanti possa svilupparsi entro una specie priva di udito. Senza insegnamento ognuno dovrebbe rielaborarsi da sé ogni pratica, ogni rito, ogni convenzione e in buona sostanza non esisterebbero né pratiche, né riti, né convenzioni che non fossero geneticamente selezionate. Senza l’insegnamento l’apprendimento si ridurrebbe all’implementazione più o meno creativa di ciò che è implicito nel pacchetto cromosomico e ognuno porterebbe con sé nella tomba, ma forse non esisterebbero neanche le tombe, tutto il sapere faticosamente accumulato nella vita tranne quella piccola porzione che forse qualcun altro è riuscito a copiare, con tutti i difetti inevitabili della riproduzione. [1]
E’ nei vissuti quotidiani e routinari che l’appartenenza ai segni condivisi trova il suo senso e il suo significato. Richiedere esplicitamente che la giornata del bambino piccolo venga scandita da passaggi regolari collegati ai suoi bisogni con la relativa frequentazione di oggetti per lui significativi è, nella sua naturalità, la prima domanda che il pedagogista fa alla mamma sia per rispettare il benessere del bambino che il ruolo della mamma. Infatti un rischio connesso all’intervento di impianto cocleare consiste proprio, per i genitori, in un involontario atteggiamento di trasformazione delle relazioni in relazioni esclusivamente riabilitative e sanitarizzanti. Questo fatto determina talvolta un effetto sorpresa nelle mamme a cui viene richiesto proprio di “fare la mamma” e tale richiesta appare come limitante e riduttiva rispetto ad un bisogno “compensativo” che il genitore si porta dentro e che deve essere placato proprio riconducendolo al suo specifico di maternità, di paternità, di genitorialità.
Legittimare e motivare l’importanza del giocare è ad esempio restituire il senso e il significato del rapporto col mondo da parte del bambino attraverso il rapporto con l’altro, in primis la mamma.
Il gioco richiede a chi educa di varcare una soglia e di modificare molti parametri cognitivi: di dotarsi di un uso del tempo non lineare, di saper osservare le strategie che i bambini adottano, di passare dalla logica della conoscenza a quella dell’esperienza, di introdurre la dimensione corporea come protagonista emozionale e cognitiva. [2]
Il gioco è l’occasione concreta di rapportarsi con gli oggetti, con il mondo, con il proprio corpo, con il corpo degli altri. Il tutto per scoprire:
- informazioni caratteristiche degli oggetti e del loro comportamento (compresi i loro nomi);
- conoscenze e scoperte delle proprie capacità rispetto agli oggetti (compresi i limiti);
- osservazione dei cambiamenti e delle trasformazioni degli oggetti sulla base di azioni su di essi o tra essi;
- creazione di nuove possibilità combinatorie tra oggetti sulla base di informazioni e conoscenze possedute.[3]
L’insieme complesso e articolato di tutte le proposte e di tutte le azioni combinatorie che si possono proporre nel gioco e nella quotidianità esistenziale rappresenta la vera occasione educativa funzionale alla scoperta del linguaggio come dimensione sia segnica che comunicativa della realtà.
Questo ci dice anche che comunicare e giocare nascono insieme e che la costruzione di competenze ludiche corrisponde alla costruzione di competenze comunicative. La cornice (frame) […] è quel qualcosa che incorniciando le azioni, separa un «dentro» da un «fuori»: il gioco si rivela come uno dei modi per apprendere questo scarto, non per apprendere le azioni che dentro la cornice si svolgono; è cioè un apprendimento di secondo livello o deuteroapprendimento. [4]
Il gioco e l’organizzazione delle routine giornaliere, si propongono sempre all’interno di cornici che nel nostro metodo di lavoro ha trovato nel termine scenario il suo significato più consono perché correlato alla possibilità di sviluppare la conversazione.
1. 3 Lo “scenario” come metodo e contesto
Uno scenario è l’insieme di tutti i soggetti, oggetti, tempi, spazi e relazioni possibili di quella singola situazione. E’ il luogo dove l’essere e il fare trovano la loro coincidenza tramite l’elemento di congiunzione tra i due rappresentato dalla possibilità di toccare. In un qualsiasi scenario, ad esempio quello del gioco dei cubi, individuiamo i soggetti, il bambino e la mamma; gli oggetti, i cubi; il tempo, il prima e il dopo; lo spazio, può essere il tappeto oltre che la direzione di costruzione dei cubi; le relazioni, l’aggancio visivo, l’accompagnamento verbale, l’interazione verbale, le esclamazioni, i sorrisi, le sollecitazioni, le approvazioni, le disapprovazioni, le affermazioni, le negazioni, le autorizzazioni, i divieti, il contatto fisico, le espressioni facciali, le espressioni vocali.
E’ in qualità di scenario che possiamo pensare ad una sceneggiatura da assegnare e interpretare e il cui contenuto può anche essere ripetuto, ripreso, continuato.
Questo ci permette di comprendere che l’atto educativo nella sua semplicità e sincerità non è mai superficiale, non è mai irragionevole, non è mai casuale. Esso è il risultato intenzionale di scelte che hanno chiaro il loro scopo e i loro perché.
Si caratterizza in una triplice fase:
- preventiva, pensata e allestita secondo l’idea di setting;
- contemporanea, che si esplica durante l’interazione in cui l’educatore mantiene e orienta l’azione secondo uno sfondo e un ritmo tale per cui vi è uno scopo da raggiungere insieme e compaiono gli eventuali adattamenti in scena;
- successiva, che riflette sull’insieme della conversazione avvenuta e ne valuta l’esito in termini di apprendimento e di relazione.
Lo scenario, nel suo proporsi in senso comunicativo e operativo risponde a quattro semplici domande il cui esito, in termini di comprensione e di elaborazione del linguaggio rappresenta le strutture irrinunciabili su cui avviene l’organizzazione del pensiero e delle conseguenti proposizioni linguistiche.
Come ogni domanda che si rispetti, intesa quindi come possibilità di scoprire e vedere ciò che prima non si conosceva e non si vedeva, il primo atto interrogativo, se pensato per un bambino, avviene attraverso tutte le modalità dell’entrare in contatto con il mondo:
- toccare il mondo consente di prendere atto di ciò che esiste attorno a noi ponendo la domanda forse più semplice, ma anche la più irrinunciabile: Cos’è? E a questa domanda si associa la contemporanea scoperta che quella cosa, quella persona, quell’evento hanno anche un nome, quindi possono essere “toccate” anche con il nome;
- esplorare il mondo significa indagare quelle cose precedentemente dette per vedere come sono fatte, come funzionano. E dunque è un porre la domanda: Cosa ci faccio? E le risposte costruiscono e combinano la scoperta delle azioni possibili e dei verbi a loro associate;
- trasformare il mondo è la parte combinatoria che si realizza con gli oggetti e sugli oggetti e che risponde alla domanda: Cosa può diventare? L’insieme creativo degli atti che manipolano gli oggetti all’interno dello spazio e del tempo in cui è possibile muoverli, danno origine ad una larga fetta di segmenti linguistici, ad esempio ai termini topologici, ai termini temporali, ai segmenti preposizionali, agli aggettivi;
- spiegare il mondo rappresenta l’opportunità per dare ragione e motivare perché le cose stanno in un modo piuttosto che in un altro e risponde alla domanda: Come lo spiego? Nel rispondere si compone e si struttura sempre più la frase, i suoi aspetti flessionali, le sue parti prosodiche, generando nel bambino, in maniera indiretta ma pressante, il bisogno di rendere via via più articolata e ampia la scelta terminologica e il numero delle coordinate e delle subordinate per meglio argomentare a far valere il proprio punto di vista.
Appare evidente che l’organizzazione dello scenario diventa l’occasione quotidiana e ludica attraverso la quale si sollecitano e si facilitano i passaggi a cui abbiamo fatto riferimento per il tramite di una costante conversazione. Lo scenario è il luogo del fare, dell’essere e del provare emozioni in un tutt’uno che è definibile e racchiudibile nel termine relazione.
Nella «pedagogia del quotidiano», in tutto ciò che appartiene al flusso indistinto della quotidianità, delle pratiche educative che avvengono ogni giorno, per tante volte al giorno per tanti giorni, uno di seguito all’altro, continuamente si costruiscono significati emozionati che pian piano danno forma alla nostra storia di formazione. Questi significati emozionati esprimono il senso che di volta in volta immettiamo nelle esperienze, configurando in tal modo la vita come simbolo. La realtà è da noi strutturata simbolicamente, cioè attraverso ogni azione, gesto, emozione noi esprimiamo un senso, mandiamo messaggi che articoliamo in significati più o meno consapevoli.[5]
La stabilità delle relazioni, con le sicurezze interne e le prevedibilità annesse, facilita nel bambino l’avvicinamento al simbolo (il nome) ovvero alla tolleranza, poiché di questo si tratta, di usare “cose” (cioè il linguaggio) condivise, al posto di “cose” (esclusivamente oggetti) non condivisibili perché assolutamente propri (atteggiamento egoreferenziale). Predisporre un qualsiasi scenario, nel senso di un setting preparato con cura, significa aver compreso che
[…] nel processo di apprendimento non è importante aumentare la quantità di informazioni ma la disponibilità ad apprendere, ovvero lo spazio mentale disponibile a ricevere nuovi dati e nuove esperienze. L’apprendimento riuscito non è tale quando si hanno più conoscenze, ma quando è aumentata la capacità di riceverle: non si tratta cioè di un fatto quantitativo, ma di un fatto qualitativo; non è un problema di sapere, ma di modo di mettersi in rapporto con gli altri, il mondo, la natura, la conoscenza. L’apprendimento autentico, cioè, comporta un cambiamento mentale nel modo di pensare.[6]
Ma il cambiamento nel modo di pensare l’apprendimento è in prima istanza un fatto che riguarda l’adulto educatore che sa riconoscere, nella predisposizione dei “luoghi per la conversazione”, le modalità operative per potenziare le aree forti di un qualsiasi scambio comunicativo:
- la convergenza, intesa come insieme di strategie concrete e attive per educare l’attenzione in maniera orientata, mantenuta e focalizzata. E’ funzionale all’educazione verso la focalizzazione attentiva sapendo scegliere tra stimolo primario e stimolo secondario;
- la divergenza, intesa come possibilità di flettere l’andamento del gioco o dell’attività quotidiana, verso opportunità nuove non precedentemente esperite, ma sapute individuare e intuire nei contesti e capaci di offrire nuove aperture di senso e di ricerca. E’ funzionale all’educazione della capacità di accettare il nuovo senza perdita di identità;
- il melange, ovvero la modalità con la quale più materiali, più cornici, più situazioni, più proposte possono essere tra loro collegate sulla base di uno stimolo che le accomuna. Se sto parlando di cane in un setting di gioco, posso ritrovare lo stesso personaggio oggetto in una foto, in una figura di un libro, tra gli animali tridimensionali della fattoria, tra gli animali di peluches appoggiati sul letto, nel verso del “bau – bau” che si avverte fuori dalla finestra, nella figura dell’osso o della cuccia singolarmente presenti su un’altra immagine. La mescolanza oggettuale, pur nella sua evidente diversità senso percettiva, rinvia comunque ad una similarità che trattiene il tutto all’interno di una sola idea affrontata da molteplici punti di vista. E’ funzionale al riconoscimento dell’identità, pur nelle legittime diversità simbolico – rappresentative;
- la transferenzialità, rappresenta la spendibilità, in termini di esperienza sia diretta che indiretta e trasferita, di conoscenze terminologiche, procedurali, risolutive, in cornici esistenziali diverse e comunque distanti da quelle in cui è avvenuto l’apprendimento diretto. Se il bambino ha imparato ad allacciarsi le scarpe e mostra di allacciare le stringhe di una giacca di un bambolotto, siamo in presenza di un comportamento transferenziale in cui non solo abbiamo la “misura” di un apprendimento, ma anche la sua autonomia di uso. E’ funzionale all’applicazione degli apprendimenti in maniera personale e autonoma oltre che all’aumento dell’autostima;
- la memoria, ovvero, per effetto di tutto quello precedentemente indicato, la possibilità di stratificare in maniera sempre più consolidata e accessibile gli apprendimenti al fine di utilizzarli per successive e sempre uguali, diverse, previste, impreviste situazioni esistenziali. E’ funzionale alla costruzione della nostra biografia personale e sociale di appartenenza.
Quanto sin ora argomentato non può essere pensato e attuato esclusivamente dai genitori. Condividere l’impegno educativo tra più adulti è garanzia di
- rilassamento, perché ai genitori è data l’opportunità di importanti fasi di allontanamento dal bambino, fasi necessarie per un riposizionamento del sé e per una ripresa energetica del ruolo;
- fiducia, perché anche ad altri può essere differito e condiviso il compito educativo che, se assunto in termini esclusivi, può determinare una pericolosa chiusura comunicativa nel bambino. Lo scambio di opinioni e di visioni del bambino tra adulti è un’occasione per una più consona osservazione dei suoi bisogni e delle sue difficoltà;
- conoscenza, perché è nel dialogo con altri adulti, siano insegnati o genitori, che i genitori talvolta apprendono informazioni, strumenti, modi, opportunità, diversità di risposta ai comportamenti infantili che i genitori da soli non avrebbero.
Per questi motivi il bambino con impianto cocleare è rapidamente portato, se la situazione procede regolarmente, ad affrontare la vita sociale sia con altri bambini all’interno dell’asilo nido che all’interno della scuola dell’infanzia. In questo suo vissuto incontrerà adulti diversi dal nucleo parentale, ma ugualmente importanti e significativi.
La vita di relazione lo metterà a contatto di coetanei e disetanei che gli porranno il confronto con altri modelli di comportamento, con altre possibilità di comunicazione, con altri stili di apprendimento e occasioni di scambio.
Le organizzazioni educative e la scuola devono operare una presa in carico del bambino nella sua totalità e non nella sua particolarità.
Il bambino con impianto cocleare “ha” un impianto cocleare e non “è” il suo impianto cocleare. La distinzione merita una riflessione che non va pensata come distinzione presuntuosa, ma come distinzione di merito.
La riduzione di una relazione al solo aspetto ritenuto “problema” o “situazione particolare”, determina una alterazione della normale comunicazione di conversazione, modificando e distorcendo il naturale rapporto dialogante per amplificare, contemporaneamente, l’aspetto su cui si intende intervenire con un atteggiamento talvolta “miracolistico”.
Quello che viceversa deve essere richiesto all’educatore che si occupa di un bambino piccolo è esclusivamente un rapporto regolare, naturale, proporzionale ai bisogni dell’età e non agli affanni che l’adulto si autogenera. L’accento cade sull’atto dell’occuparsi e non sul vissuto del preoccuparsi. Il primo atto è attivo, creativo e propositivo, il secondo, proprio perché è un vissuto, è inattivo, distruttivo, scoraggiante.
Pertanto pensiamo che
[…] uno dei compiti più importanti di un adulto che si prende cura di un bambino piccolo sia quello di farlo sentire felice per la maggior parte del tempo possibile. […] D’altra parte non pensiamo affatto che la libertà illimitata sia la chiave per la felicità e lo sviluppo ottimale. Perciò, sebbene possiamo dare la sensazione di assumere una posizione “non interventista” affermando che, fin dove possibile, l’adulto deve favorire piuttosto che dirigere le attività del bambino, noi lo facciamo in un contesto di minuziosa programmazione e in un ambiente ben organizzato. […] potremmo identificare come aspetti significativi l’alto livello di interazione adulto – bambino, il coinvolgimento del bambino in attività domestiche di solito svolte dagli adulti, l’aperta espressione d’affetto, il rispetto per l’apprendimento e l’alfabetizzazione e il riconoscimento di come un successo scolastico sia determinante per avere buone occasioni di vita. [7]
Se il successo demarca la distinzione tra evoluzione e inibizione della crescita personale, appare evidente che l’investimento, in termini educativi, all’interno dei contesti scolastici deve avvenire su ciò che caratterizza i luoghi concreti della relazione insegnamento – apprendimento, poiché lì si specifica e si caratterizza il “compito” dell’educatore qualificato.
Pensando, nello specifico, al nido e alla scuola dell’infanzia riteniamo che
[…] il gioco è solo un elemento nella crescita del bambino, molto più cruciali sono l’interesse e l’attenzione dell’adulto nei suoi confronti. […] noi pensiamo che il gioco debba essere considerato estremamente importante da chi si prende cura di un bambino. Esistono buone ragioni pragmatiche per poterlo affermare. Le lunghe ore che i bambini passano negli asili devono essere occupate. I bambini annoiati sono irritabili e tristi. Migliore sarà la qualità delle opportunità di gioco loro offerte, più piacevole sarà l’esperienza vissuta sia per gli adulti che per i bambini. […] è giusto e ragionevole dare maggiore valore a certi giochi piuttosto che ad altri, creare situazioni nelle quali i bambini sono più propensi a scegliere certe attività piuttosto che altre, incoraggiarli a fare giochi complessi e di concentrazione piuttosto che saltare senza scopo da una cosa ad un’altra. [8]
La quotidianità, nella sua apparente ripetizione, nei fatti mai uguale a se stessa, resta, anche per la scuola, il ritmo fondamentale su cui si strutturano gli apprendimenti certi, i vissuti profondi e le sicurezze essenziali per l’evoluzione dell’individuo.
[1] Cfr., I. Salomone Il setting pedagogico, Roma, Carocci, 2000, pp. 33-34. [2] Cfr., P. Manuzzi, Pedagogia del gioco e dell’animazione, Milano, Guerini, 2002, p. 33. [3] Per un ulteriore approfondimento sul significato del gioco e nello specifico del gioco infantile rinviamo a Gianfranco Staccioli, Il gioco educatore (cfr. G. Staccioli, Il gioco e il giocare, Roma, Carocci, 2002). [4] Cfr., P. Manuzzi Pedagogia del gioco e dell’animazione, cit. p. 45. Per quanto riguarda G. Bateson si fa riferimento a Questo è un gioco, Milano, Raffaello Cortina, 1996, ma anche a G. Bateson Verso una ecologia della mente, Tr. It. Milano, Adelphi, 1977. [5] Cfr., M.G. Riva Il lavoro pedagogico, cit., p. 80 [6] Cfr., G. Blandino, B. Granieri La disponibilità ad apprendere, Milano, Raffaello Cortina, 1995, p. 25. [7] Cfr., E. Goldschmied, S. Jackson, Persone da zero a tre anni, Bergamo,Junior, 1996, pp. 17, 18, 19. [8] Ibidem, p. 19.
Riferimenti bibliografici
Bateson G., Steps an Ecology of Mind (1972), trad. it. Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1976.
Bion Wilfred R., Learning from Experience (1972), trad. it. Apprendere dall’esperienza, Roma, Armando, 2003.
Blandino Giorgio, Granieri Bartolomea, La disponibilità ad apprendere, Milano, Raffaello Cortina, 1995.
Blandino Giorgio, Granieri Bartolomea, Le risorse emotive nella scuola, Milano, Raffaello Cortina, 2002.
Baronia Letizia, Costruire la conoscenza, Firenze, La Nuova Italia, 1997.
Colombo Gloria, Cocever Emanuela, Bianchi Letizia, Il lavoro di cura, Roma, Carocci, 2004.
Fabio Rosa Angela, L’attenzione, Milano, Franco Angeli, 2001.
Goldschied Elionor, Jackson Sonia, prima edizione by Routledge, London, trad. it. Persone da zero a tre anni, Bergamo, Junior, 1996.
Manuzzi Paola, Pedagogia del gioco e dell’animazione, Milano, Guerini, 2002.
Mead George H., Mente, sé e società, Firenze, Giunti – Barbera, 1976.
Novara Daniele, L’ascolto s’impara, Torino, Gruppo Abele, 1997.
Riva Maria Grazie, Il lavoro pedagogico, Milano, Guerini, 2004.
Salomone Igor, Il setting pedagogico, Roma, Carocci, 2000.
Sini Carlo, Gli abiti, le pratiche, i saperi, Milano, Jaca Book, 2003.
Staccioli Gianfranco, Il gioco e il giocare, Roma, Carocci, 2002.
Werner H., Kaplan B., Symbol Formation, trad. it. La formazione del simbolo, Milano, Raffaello Cortina, 1989.
Immagine presa da: https://www.centriudito.it/che-cose-limpianto-cocleare/
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