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Insieme nell’insieme

Rita Bartolini

Le Linee Guida italiane del Ministero della Salute (21, revisione 2015, p.12) alla voce «autismo», definiscono questa patologia come

Una patologia comportamentale causata da un disordine dello sviluppo, biologicamente determinato, con esordio nei primi 3 anni di vita. Le aree prevalentemente interessate da uno sviluppo alterato sono quelle relative alla comunicazione sociale, alla interazione reciproca e al gioco funzionale e simbolico.

Prendendo le mosse proprio da questa prima essenziale definizione e intenzionando il presente lavoro al contesto scolastico, ci pare in primo luogo opportuno cercare di definire cosa siano le relazioni sociali e, nello specifico, quelle che nella quotidianità della scuola hanno un valore dominante e significativo per la patologia di riferimento. Vale certamente ricordare, per meglio orientare il lavoro in direzione pedagogica, un principio fondativo per l’azione educativa stessa:

Tutti sappiamo bene che si tratta di un’impresa disperata basarsi nell’educazione solo sugli sforzi coscienti dell’allievo, che vanno contro i suoi normali interessi e normali abitudini (Vigotskij, 1929, p. 229).

Questa breve, ma significativa, riflessione ci apre ad una interessante direzione di senso in ambito comunicativo, ovvero a quella che ci chiarisce come ogni atto educativo sia sempre indirizzato al cambiamento o all’adattamento di un individuo nei confronti del «contesto-mondo» in cui gli è dato di esistere; ma tale cambiamento può realizzarsi alla sola condizione che tutte le parti di quel contesto si orientino simultaneamente al cambiamento, dato che il soggetto in questione e le parti sono in costante comunicazione reciproca. Quanto a dire che ogni cambiamento è sostenibile se non è unilaterale, ma riconosciuto, coinvolgente e condiviso.

Nella situazione relativa allo spettro autistico le difficoltà relazionali a carattere comunicativo hanno densità di difficoltà e modalità di interazione tra loro fortemente collegati. Una prima frequente difficoltà risiede, ad esempio, nel dirigere il proprio sguardo verso lo sguardo e al volto dell’altro. Tendenzialmente vi può essere una maggiore tendenza a porre attenzione o alla parte bassa del volto o alle sue parti collaterali. Una seconda difficoltà risiede nel ritardare o non far emergere l’attenzione congiunta che sta alla base delle interazioni e della possibilità di imitare i comportamenti altrui. Autori come Gutstein e Sheely ci sottolineano come

Nei soggetti con questi disturbi, dettagli molto marginali monopolizzano il pensiero e l’attenzione. Queste inadeguate forme del rapporto con l’altro si collegano a un tema centrale: la scarsa abilità a leggere la mente altrui (2005, p. 10).

L’insieme di questi comportamenti comunicativi, se non conosciuti, riconosciuti e compresi dai soggetti coinvolti nel percorso educativo di questi bambini, rischiano di essere interpretati in modo superficiale o pregiudiziale, quindi non funzionale alla selezione e all’applicazione di azioni coerenti con la loro patologia, con la loro crescita e con i loro bisogni.

Da oltre 70 anni dall’individuazione della patologia da parte di Leo Kanner (1943), esistono tuttora molte incertezze circa le sue caratteristiche: in termini eziologici, di quadro clinico, di confini nosografici con sindromi simili, di presa in carico e di evoluzioni a lungo termine. Certamente nel tempo si è costantemente affinata la sensibilità verso questa patologia dando vita ad atteggiamenti più maturi sul piano storico, culturale e umano. Nello stesso tempo è migliorata la capacità di individuazione della patologia relativamente alla stesura della prima diagnosi, in un momento storico di crescita collocato sempre più precocemente nell’infanzia.

Nei fatti il quadro fenomenico relativo alla patologia dello spettro autistico appare molto diversificato, non solo sul piano funzionale e sociale, ma anche sull’efficacia dei percorsi di intervento che non sempre risultano basati su una solida metodologia e validati da prove scientifiche adeguate e documentate.

Il campo della ricerca è tuttora in costante e ampio movimento, sicuramente caratterizzato, in alcuni interventi, da precise direzioni di analisi e di scientificità, ma, purtroppo, talvolta ancora negativamente sbilanciato da direzioni legate al miracolismo e all’ improvvisazione.

Per rimanere nell’area della coerenza e della correttezza possiamo in prima istanza sostenere che la diagnosi di spettro autistico deve essere sempre certificata e documentata in maniera circostanziata, corretta e riconosciuta. Non sembri eccessiva questa indicazione, poiché talvolta ci si trova davanti a documenti non coerenti con le attuali indicazioni nazionali e il cui contenuto rispecchia molto di più i desideri o le attese dei genitori, piuttosto che l’insieme dei dati di realtà cui poter correlare gli interventi e i processi di abilitazione o riabilitazione. La diagnosi iniziale deve prevedere un accompagnamento degli stessi genitori, perché possano comprendere la situazione, perché possano dichiarare il loro stato emotivo e indirizzarlo, progressivamente, verso le azioni funzionali alla situazione, perché possano conoscere le risorse attivabili, perché possano, nel complesso, reggere la situazione in quanto non si sentono soli e indifesi. Dunque, se ci riferiamo al contesto scolastico, la presenza del certificato diagnostico che dichiara l’autismo e ne descrive la densità in termini di compromissione e ne evidenzia, simultaneamente, le aree di potenzialità, consente una presa in carico molto più cosciente e circostanziata, sia in termini di evidenza patologica che di attivazione di intervento e di collaborazione con l’équipe di riferimento.

Il bambino con diagnosi certa di autismo cresce con il suo disturbo, anche se nuove competenze sono acquisite con il tempo. Tali competenze, tuttavia, sono “modellate” da e sul disturbo nucleare e avranno comunque una qualità “autistica” (Linee guida, p. 14).

Ogni intervento, quindi anche quello scolastico, deve avere come obiettivo primario, che guidi verso ogni altro obiettivo a medio o a lungo termine: quello di favorire il massimo sviluppo delle diverse competenze, conoscenze, capacità e abilità che il disturbo compromette e che gli atti di riabilitazione dimostrano incidibili e descrivono come emancipabili.

Alcune delle compromissioni, caratteristiche dello spettro autistico, impattano in maniera significativa con il contesto relazionale strutturato quale è certamente quello scolastico. Nel bambino con spettro autistico vi possono essere

Compromissioni qualitative del linguaggio fino alla totale assenza dello stesso (Linee guida, p. 12)

Tali compromissioni possono involontariamente mettere i coetanei nella condizione di non utilizzare o utilizzare molto limitatamente il linguaggio verbale per rivolgersi al compagno autistico. Se a tale situazione si aggiunge un comportamento altrettanto silente o evitante da parte del docente o dei docenti o degli adulti in genere, allora, a maggior ragione, i compagni di classe, per effetto generato dal modello di riferimento, si sentono confermati nel non utilizzare o utilizzare raramente il linguaggio. Nei fatti, come è ovvio, un bambino con spettro autistico, con una significativa compromissione linguistica o assenza totale di linguaggio, non ha alcuna intenzione di inibire e di silenziare le persone che lo circondano. Ma è pur vero che nel nostro sistema contemporaneo di comunicazione, il linguaggio detiene un ruolo primario e domina, per selezione storica, sugli altri sistemi comunicativi affidandogli quindi, simultaneamente, un valore più alto rispetto agli altri ritenuti alternativi o accessori.

Tutti conosciamo quanto il linguaggio, nel suo manifestarsi, porti con sé anche le espressioni facciali, i movimenti e i gesti del corpo, le posture, le indicazioni sottese, gli impliciti emotivi e i significati profondi dei nostri pensieri.

Dunque il silenzio non è solo assenza di voce, ma assenza di molteplicità di codici e di significati che caratterizzano ed esprimono l’unità della persona. Da tutto ciò si comprende quanto sia importante incoraggiare e alimentare le intenzioni, le modalità e gli stili comunicativi tra bambini e tra adulti e bambini.

Risulta molto interessante e utile, di volta in volta, sulla base dello sviluppo evolutivo (ma questo vale per tutti i bambini), calibrare la struttura della frase, la referenzialità della stessa, la sua lunghezza, il suo valore intenzionale. Si comprende anche quanto sia importante vivere l’esperienza del linguaggio a prescindere dalla presenza, dall’uso e dalla competenza linguistica di un bambino. L’effetto incidentale che all’interno delle attività di sezione, di classe, di gruppo e di laboratorio, un bambino con spettro autistico vive ed esperisce incidono, in modalità che raramente sono totalmente conosciute e comprese dall’operatore, dall’insegnante o dal tecnico, nell’acquisizione di etichette di parole, di frasi, di modi di dire, che possono venire in parte archiviate e riproposte in situazioni affini o in cornici esistenziali collaterali.

Privare un bambino, un alunno, dei bambini, degli alunni, di un reale vissuto comunitario per privilegiare formule esclusive di sostegno, separate costantemente dal gruppo di appartenenza, reifica la classe speciale a svantaggio della organizzazione di una classe specializzata, cioè capace di muoversi utilizzando schemi, stili, modalità, registri, comunicativi sia convergenti che divergenti.

Va da sé che l’adulto, in questo caso l’insegnante, tanto più è flessibile e disponibile alla divergenza e alla contaminazione di proposte alternative, tanto più si mette personalmente e mette il contesto classe nel suo insieme, nella condizione favorevole per centrare il lavoro, non tanto sulla convergenza programmata di apprendimenti e di relazioni, ma, in alternativa, verso una sollecitazione di divergenza che alimenta progetti, apprendimenti e relazioni. In questa seconda modalità l’aspetto fortemente inclusivo pone l’accento sulle diversità, in quanto risorse tra loro dialoganti e collaboranti, evitando il rischio di porre l’accento su una sola diversità che, viceversa, viene osservata per poterla contenere, prevedere, dominare. Nella dinamica inclusiva tutte le risorse hanno pari utilità e pari opportunità, nella dinamica non inclusiva le risorse vengono selezionate sulla base del principio di contenere, cioè, in definitiva, difendersi. Vivere l’esperienza scolastica in forme di totale separazione dal gruppo classe aggiunge, alla difficoltà di comunicazione linguistica o all’assenza della stessa da parte del bambino, la sua stessa separazione dal gruppo classe. Poiché non vi è parola si elimina anche la possibilità di ascolto di parola, oltre che di utilizzo di altre modalità di comunicazione.

La compromissione linguistica o l’assenza del linguaggio dovrebbero viceversa mettere in azione modalità alternative e compensative di intenzione e interazione comunicativa. Non entrando in merito a veri e propri strumenti compensativi come ad esempio la CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa), qui ci riferiamo all’opportunità di segnare lo spazio sezione o lo spazio classe, laboratorio, palestra, giardino, mensa, con immagini o simboli che riescano ad indirizzare più agevolmente ed efficacemente il messaggio e il significato di quello spazio e di quel luogo, rispetto alle sue funzioni e alle sue regole. Ad esempio: il bagno, gli attrezzi e gli strumenti di lavoro, le azioni per compiere routine, i luoghi dove si trovano materiali utili, le foto del personale di riferimento, … Tutto con lo scopo di facilitare l’orientamento, la possibilità di mediare la comunicazione di richieste o di consegne attraverso indicazione, la possibilità di mediare la comunicazione tra pari, l’aumento dell’autonomia personale, la stabilità ambientale nella quale muoversi e agire, l’interazione spontanea tra pari. Non si può pensare che le uniche risorse in termini di risposte e di azioni siano le sole persone adulte, in questo caso specifico gli insegnanti. Risorse e risposte, in ambito scolastico, sono anche i compagni, gli ambienti, gli spazi, gli adulti con altre funzioni, segnali, indicatori.

Ovviamente ogni bambino e ogni alunno con spettro autistico è un individuo a sé, dunque a fronte di indicazioni di massima, ogni progettazione comunicativa va personalizzata, quindi adeguata alla sua patologia, alle sue difficoltà e alle sue risorse.

Per questo viene sostenuto che

Gli interventi sono personalizzati secondo il parere degli esperti e condivisi. È importante adattare l’ambiente comunicativo, sociale e fisico. Fornire suggerimenti visivi, ridurre le richieste di imitazioni sociali complesse, seguire routine, programmi prevedibili, usare suggerimenti, minimizzare le stimolazioni sensoriali disturbanti (Linee guida, p. 41).

Spesso, ma sarebbe meglio poter dire nella maggior parte delle situazioni, la condivisione degli interventi avviene tra tutti i soggetti coinvolti: genitori, operatori, insegnanti, riabilitatori. La coralità progettuale, declinata in obiettivi, strumenti, modalità e azioni comuni, pur nella legittima diversità degli ambienti e dei soggetti, consente al bambino di ricevere stimoli, richieste, sollecitazioni, messaggi, coerenti e il cui effetto per ridondanza consente una più celere ed efficace possibilità di acquisizione lessicale, prammatica, comportamentale e cognitiva.

Ribadire l’importanza del lavoro comune tra gli adulti coinvolti significa altresì abbassare le ansie prestazionali o le pretese salvifiche che, nel lavoro «solipsistico» in cui un solo referente accentra la direzione di intervento, si generano e si alimentano.

Per la crescita e l’evoluzione di un bambino con spettro autistico sono necessarie molte risorse e molte energie; poterle condividere e distribuire tra più soggetti è garanzia di resistenza all’impatto di un possibile fallimento, di possibili rallentamenti, di fatiche e di frustrazioni. Il lavoro in équipe è occasione di riflessione, di discussione su osservazioni da punti di vista diversi, ma non contrari, di conoscenza di strumenti o metodi da studiare e valutare, di confronto e alleggerimento delle preoccupazioni, di potenziamento energetico dato dai progressi osservabili.

Nel progettare l’intervento scolastico per un alunno autistico si dovranno considerare sia gli aspetti caratteristici della patologia nelle sue diverse densità indicate in diagnosi, sia le difficoltà e le potenzialità caratteristiche di quel singolo bambino. Dunque una personalizzazione dell’intervento il cui obiettivo fondamentale è l’autonomia massima raggiungibile che orienti simultaneamente gli obiettivi progressivi delle annualità e dei singoli interventi. In tal senso l’aspetto relativo al progetto di vita deve essere costantemente presente lungo tutto il processo di vita scolastica che ogni singolo bambino percorre.

L’aspetto documentativo della sua storia deve essere curato e conservato affinché la fluenza della sua crescita non venga interrotta al sopraggiungere di passaggi di scolarità e di cambiamenti di persone o di contesti.

Tale indicazione ha altresì la funzione di consentire a tutti gli operatori di poter dialogare, seppure a distanza, in virtù di narrazioni che precisano ed esemplificano il lavoro in corso. Il principio è quello della continuità e della salvaguardia dell’insieme unitario dell’alunno evitando il rischio

· di una frantumazione degli interventi e del dialogo tra operatori e genitori

· di interrompere il dialogo tra lo staff di lavoro scolastico e i genitori

· di rallentare la crescita comunicativa tra bambino e compagni

· di fermare le fasi di evoluzione complessiva del bambino.

Quando siamo in presenza dell’applicazione di metodi specifici di intervento, come ( a titolo esemplificativo) il metodo TEACCH, oppure il metodo ABA, oppure il metodo CAA, l’aspetto di continuità diventa assolutamente irrinunciabile, perché incide sugli effetti funzionali del metodo stesso in termini di risultato e di successo.

Non sono rare le situazioni in cui il docente di sostegno proceda ad una sua specializzazione relativamente al metodo in atto, pertanto talvolta risulta davvero importante mantenere quella figura all’interno dell’équipe scolastica in quanto consente di pilotare l’intervento scolastico in modo tecnicamente corretto e funzionale.

All’interno dell’organizzazione della classe anche i compagni sono da ritenere una risorsa funzionale alla crescita comunicativa del bambino autistico. In tal senso le relazioni tra alunni è opportuno che siano autorizzate e sostenute piuttosto che inibite e limitate. Alcuni processi in termini di arricchimento comunicativo ed espressivo, oltre che nell’autonomia, avvengono per sollecitazione incidentale tra pari. Infatti spesso le comunicazioni tra alunni si muovono e si intenzionato mediante strutture infantili spontanee e a forte carica emotiva. Questi processi stimolano

· la sintonia interna al gruppo classe in virtù proprio delle singole diversità

· l’evoluzione sempre più complessa delle intese, delle appartenenze, delle preferenze

· la strutturazione di modalità di collaborazione sulla base di situazioni strutturate in sottoconvenzioni in gruppi di pari

· l’utilizzo spontaneo e progressivamente sempre più stabilizzato di codici di intesa comunicativa gestuale, di immagini, di pittogrammi

· il consolidamento di relazioni reciproche esportabili anche all’esterno della realtà scolastica in situazioni di amicalità quali il coinvolgimento nel gioco in giardino, gli inviti ai compleanni, il riconoscimento nei luoghi promiscui,…

· le relazioni tra genitori dei bambini della classe.

Le esperienze positive, in termini di conoscenza reciproca e di frequentazione dei bambini in classe, alimentano indirettamente anche i vissuti e le relazioni dei genitori fuori dal contesto scuola, producendo potenzialmente una rete di sostegno reciproco il cui effetto è speculare all’inclusione scolastica anche tra adulti.

Generare occasioni di lavoro, di gioco, di laboratori, di confronto, tra alunni è l’occasione, per gli insegnanti, di osservazioni utili a convalidare il proprio lavoro sia in termini di apprendimenti disciplinari che di apprendimenti socio-emotivi.

La classe è, nei fatti, una comunità educante in cui le diversità dovrebbero essere gli elementi che costruiscono l’unità e la coralità del gruppo. Dunque diventa fondamentale che l’adulto sia sincero, che non nasconda e non trasformi in fiaba le evidenti e reali diversità di ognuno.

Non si deve dimenticare che i bambini

· hanno ovviamente la capacità di annotare le differenze e le diversità

· hanno ovviamente la capacità di osservare ciò che un compagno sa o non sa fare

· hanno ovviamente la capacità di rendersi conto delle difficoltà proprie e dei compagni

· hanno ovviamente il senso delle emozioni proprie e altri.

In tal senso non rispondere alle loro domande di chiarimento perché un compagno fa così piuttosto che cosà non può essere taciuto. Rispondere ad un bambino come può fare meglio una cosa, affinché possa essere capito meglio da un compagno, pretende una risposta, non un “ci penso io!, tu lascia stare”. L’infanzia si costruisce sul principio del sapere e sull’ordine del come si fa. Il tutto serve per diventare capaci da soli. Ma queste due direzioni di senso non sono dedicate esclusivamente alle discipline strettamente scolastiche, sono ovviamente dedicate a tutto ciò che serve per stare al mondo con gli altri, e gli altri non solo sono altro da me, ma sono anche diversi da me, come io sono diverso da loro.

Il principio della diversità non nasce con le patologie e con i codici nosografici, nasce con il nascere di ogni singola persona.

Il compagno può essere quello che non guarda negli occhi quando si parla, ma è il compagno che desidero che mi ascolti. Il compagno può essere quello che ripete lo stesso schema di gioco, ma è anche il compagno con il quale mi va di giocare. Il compagno può essere quello che ripete la stessa domanda sempre, ma è anche il compagno con cui mi va di parlare. Il compagno è quello che guarda sempre fuori dalla finestra, ma è anche il compagno che voglio mi stia seduto a fianco quando lavoriamo al computer.

Fermo restando che se è vero che l’adulto è il mediatore delle possibili relazioni tra alunni, l’insegnante, allora, non può trasformarsi, come talvolta può capitare, nell’ostacolo tra comunicazioni, nel «decisionista» del come e cosa comunicare, nel sostituto della comunicazione. Questi aspetti vanno tenuti in conto soprattutto quando il bambino con spettro autistico ha un’assente o limitata comunicazione verbale e si è portati a volerlo quasi sempre «sottotitolare». Se questo è talvolta utile, è altrettanto utile che si costruisca un registro comunicativo tra pari in cui sono i compagni a saper «sottotitolare» ciò che il compagno vuole esprimere, perché solo loro ne conoscono il «linguaggio di branco»; l’insegnante non ne fa parte.

Questo aspetto merita un’ampia e diffusa riflessione tra operatori scolastici, poiché la patologia di spettro autistico talvolta sollecita risposte educative caratterizzate da

· forte protezione

· sostituzione e interpretazione sistematica

· difesa dello spazio del bambino

· importazione e applicazione esclusiva di metodi comportamentali stringenti.

Per quanto la necessità e l’urgenza di agire su comportamenti adattivi e modalità comportamentali possa essere certamente importante, crediamo non vadano dimenticate e sottovalutate le aree che appartengono a quel singolo bambino in termini di

· abilità

· conoscenze

· capacità

· competenze.

Alcuni bambini affetti da spettro autistico possiedono un alto funzionamento cognitivo che può rappresentare un altrettanto rischio speculare al non saper leggere, scrivere e far di conto dei bambini a basso funzionamento. Perché se questi ultimi possono subire l’effetto protezionistico in quanto scolasticamente «non capaci», i primi possono subire l’effetto di eccezionalità scolastica in quanto «super capaci». In entrambi i casi entriamo in un territorio di rischio in termini di sovraesposizione di giudizio, allontanandoci dalla necessità di costruire il più possibile la persona .

La ricerca di senso educativo va cercata insieme, tra tutti gli operatori, ma in modo non unilaterale. Non solo “deve imparare a scrivere!”, non solo deve “stare con gli altri”. Fatte le dovute differenze di contesto, di densità di difficoltà, di analisi della situazione, di risorse di classe, si deve procedere nell’unità delle parti e non nel dominio di una parte sull’altra. Tale è il compito della scuola che, unica, rappresenta il luogo dove tutti transitano; l’auspicio è che non si limiti, appunto, ad essere solo un transito.


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